Non è solo questo però. Nostalgia è la storia di una persona che torna a Napoli dalla madre con un peso, scappò 40 anni prima senza più tornare, c’è una ragione ed è legata ad un amico fraterno oggi pericoloso boss della malavita locale. C’è qualcosa da risolvere quindi, non prima di aver riagganciato un rapporto con la città, con le persone, i quartieri, i preti e gli appartamenti visitati per affittarne uno. E c’è da impazzire a guardare come Favino si muova, la delicatezza dei gesti imbarazzati di chi è in un posto che non conosce più bene e di cui non padroneggia i meccanismi, come si rivolge ai commessi ma anche solo come entra negli ambienti! Non ci vuole un occhio da critico per notare e farsi colpire da un timore che, anche questo, lentamente nel film diventa sicurezza in sé fino ad un grande sorriso finale, sicuro di sé, di nuovo a dimora.
Sarebbe stupendo poter dire che tutto ciò è la ciliegina sulla torta di un gran film. Ma non è così. Nostalgia fallisce praticamente qualsiasi altro obiettivo. Il rapporto con questo amico ora boss è risolto con ben poca verve e nessun interesse dopo che viene montato per tutto il tempo, la riconquista di un proprio posto in città e di una “conoscenza tramite la nostalgia” (locuzione che si trova in una frase di Pier Paolo Pasolini che compare in un cartello ad inizio film) è praticamente inesistente e anche il tentativo palese di raccontare Napoli e il rione Sanità è blando. Per tutto il film questo protagonista gira a piedi nel quartiere, guarda interni, ammira palazzi, entra in negozi e conosce famiglie. Ci saranno 40 location diverse in Nostalgia, si ha l’impressione che raramente lo stesso luogo torni due volte. Lo stesso se ne esce con uno scarsissimo senso del rapporto tra personaggio e paesaggio. Perché per quanto ci urlino che Napoli è fondamentale per lui, e quindi lo capiamo, in realtà non lo sentiamo mai.
Ci sarebbe a questo punto da sperare per un premio (che sarebbe meritato) a Favino qui a Cannes, ma purtroppo nonostante il funambolismo (ripetiamo, tutto al servizio del film e che anzi è proprio ciò che gli consente almeno di funzionare) sembra difficile. La misura dello sforzo è di quelle difficili da cogliere per una giuria internazionale, che non capirà le variazioni di lingue e accenti e che probabilmente non conosce a sufficienza Pierfrancesco Favino per sapere che lui non si muove così, che anche quella è una posa assunta per il film e anzi che sia frutto di un’eleganza di gesto che richiama il mondo arabo, rispetto alla più consueta fermezza del suo linguaggio del corpo.
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di Gabriele Niola www.wired.it 2022-05-25 14:00:00 ,