Dalla legge Severino alla separazione delle funzioni, alle urne i quesiti presentati da Partito radicale e Lega. Esito valido solo con il quorum del 50% più un elettore
La partita cominciata un anno fa con il deposito dei quesiti alla Corte di cassazione da parte dell’insolito tandem Lega-Partito radicale è giunta al suo epilogo: oggi i cittadini italiani diranno se i referendum sulla «giustizia giusta» (remake dello slogan coniato da radicali e socialisti nel 1987 sull’onda del «caso Tortora») avranno avuto un senso oppure no; se sarà superata la fatidica soglia del 50 % di elettori necessaria a rendere valida la consultazione ed eventualmente abrogare le cinque leggi prese a simbolo per cambiare «dal basso» un sistema che il Parlamento non riesce a riformare. [an error occurred while processing this directive]
Era il 3 giugno 2021 quando Matteo Salvini e Maurizio Turco, leader dei due partiti promotori, srotolarono insieme ad altri militanti protetti dalle mascherine anti-Covid all’epoca obbligatorie lo striscione «Referendum giustizia» sulla scalinata della Cassazione, per annunciare l’inizio della campagna. Per tutta l’estate raccolsero le firme, oltre 700.000 dissero; tuttavia la proposta formale l’hanno presentata i Consigli regionali a guida di centrodestra, alternativa prevista dalla Costituzione. Non più referendum popolari, quindi, bensì a trazione squisitamente politica.
A febbraio la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i quesiti sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, oltre che sulla legalizzazione delle droghe leggere e sul suicidio assistito per i malati terminali. Così, rimasta monca delle questioni di maggior richiamo per gli elettori, la battaglia s’è trasferita essenzialmente sul tentativo di raggiungere il quorum.
L’abbinamento con le elezioni amministrative rappresenta una chance
in più, ma la vera sfida resta quella. Per i promotori e per i partiti che li hanno affiancati: di fatto tutto il centrodestra più Italia viva, a conferma di un’alleanza ormai stabile sui temi della giustizia. Nella destra si distingue però Fratelli d’Italia, che dà indicazione per tre Sì e due No, contraria alla limitazione dei presupposti per la carcerazione preventiva e alla cancellazione del decreto Severino. Per il Sì sono anche formazioni collocabili al centro, come +Europa e Azione, nonché una frangia di esponenti del Pd che in nome di un garantismo assoluto è per abrogare tutto quello che si chiede di abrogare. Contrari senza defezioni interne restano solo i Cinque Stelle.
Anche per via dell’incognita affluenza, l’appuntamento referendario ha bloccato l’esame al Senato della cosiddetta riforma Cartabia che affronta tre dei cinque argomenti su cui si vota: fosse stata approvata prima, l’interesse degli elettori sarebbe stato ancora più a rischio. Ciò non toglie che, qualunque sarà l’esito della consultazione, il Parlamento potrà comunque portare a termine il suo lavoro. Si ricomincia dopodomani, ma sarà un’altra partita. [an error occurred while processing this directive]
I due quesiti estranei alla riforma già approvata dalla Camera sono proprio quelli di più immediata comprensione, sui quali Fratelli d’Italia s’è smarcata da Lega e Forza Italia invitando a votare No.
Legge Severino
L’obiettivo dichiarato è abolire la norma che sospende gli amministratori locali (governatori, sindaci, assessori) anche solo dopo una condanna di primo grado, senza aspettare il verdetto definitivo; una regola in deroga alla presunzione di non colpevolezza introdotta nel 2012 che oggi tutti, tranne i grillini, dicono di voler rivedere; anche il Pd schierato per il No, delegando la modifica a un proprio disegno di legge. Per un semplice motivo: insieme a questa disposizione il Sì abrogherebbe pure quella che prevede l’ineleggibilità o la decadenza da cariche parlamentari o di governo per i condannati definitivi. E in base alla quale il Senato votò l’esclusione di Berlusconi nel 2013, mentre salvò Minzolini nel 2017. Se la norma venisse abrogata, l’interdizione dai pubblici uffici per i politici resterebbe nelle mani del giudice che pronuncia la sentenza, togliendo la parola ai partiti.
Carcere preventivo
I promotori l’avevano intitolato «limiti agli abusi della custodia cautelare», ma la Cassazione ha corretto in «limitazione delle misure cautelari», senza dare per scontato che sia abusivo ogni arresto derivante dal sospetto di reiterazione del reato. È questa, infatti, la circostanza per la quale un indagato o un imputato può oggi essere arrestato prima della condanna, che i promotori intendono cancellare. Sostenendo che i magistrati fanno eccessivo ricorso al rischio che si possano commettere reati della stessa specie di quella per la quale hanno aperto un fascicolo o un processo. Se vincessero i Sì questa eventualità resterebbe solo per i delitti di mafia e terrorismo, legati alla criminalità organizzata o accompagnati dall’uso di violenza. Di qui la preoccupazione per l’impossibilità di arrestare indiziati o imputati di corruzione, spaccio, furti e altri reati che destano allarme sociale, fino alle molestie sessuali o allo stalking
che non sempre comportano violenze esplicite. Ma i promotori, compresi i leghisti solitamente rigidi su questo fronte, non sembrano scalfiti da simili timori.
Separazione delle funzioni
Il primo dei tre quesiti che riguardano la magistratura e temi già affrontati dalla riforma Cartabia è stato anch’esso oggetto di un artificio semantico dei promotori, che l’avevano chiamato «separazione delle carriere» tra giudici e pubblici ministeri, svelando la vera aspirazione. Ottenibile però solo con una complicata riforma costituzionale. Ma con un quesito lungo 1.067 parole (all’incirca come questo articolo) si mira a raggiungerla di fatto: se vincono i Sì ci sarà una situazione ibrida, con il divieto di passare da una funzione all’altra all’interno dello stesso ordine giudiziario. Attualmente i trasferimenti consentiti (con regole molto stringenti) sono quattro, la riforma Cartabia li riduce a uno entro i primi dieci anni della carriera, proprio per dare un senso al fatto che — senza modifiche costituzionali — non può che restare unica.
Valutazione dei magistrati
Il referendum chiede di abrogare le norme che negano il diritto di voto di avvocati e professori universitari nei consigli giudiziari (una sorta di articolazione locale del Csm) sulla valutazione professionale dei magistrati. La riforma in discussione prevede di estendere quel voto, ma con alcuni accorgimenti per evitare che si trasformi in occasioni di vendette o compiacenze per singole inchieste o processi già svolti o da celebrare. Si prevede, ad esempio, che prima di esprimere il voto sulla «pagella» del magistrato da esaminare ci sia una deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, proprio per evitare eventuali personalizzazioni. Il referendum, invece, va dritto al punto senza perdersi in ulteriori limitazioni o «filtri».
Candidature al Csm
Agli elettori si chiede di abrogare il requisito minimo di 25 firme a sostegno di ogni candidatura al Consiglio superiore della magistratura per la componente togata; un limite talmente esiguo che nessun potenziale eletto ha avuto o avrebbe difficoltà a superare. La sua abolizione viene però considerata utile ad arginare il condizionamento delle correnti nella composizione del Csm, poiché tutti potrebbero presentarsi senza sostegni preventivi. Anche la riforma Cartabia elimina quel vincolo, ma all’interno di una più complessiva e complessa modifica del sistema elettorale.
Resta comunque il valore simbolico di questo referendum (molto tecnico e poco rilevante sul piano concreto, a detta dei suoi stessi sostenitori), come pure di tutti gli altri. A sottolineare una volta di più il significato politico della partita che si gioca oggi.
11 giugno 2022 (modifica il 11 giugno 2022 | 22:12)
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Giovanni Bianconi , 2022-06-11 22:44:10 ,