Nei frequenti dibattiti televisivi, incontri pubblici o articoli di giornale sull’invasione dell’Ucraina è molto facile sentir parlare di “geopolitica”. Negli ultimi mesi questo concetto è stato usato da tantissimi commentatori per discutere della guerra, delle sue cause, delle implicazioni e anche delle possibili soluzioni, sottintendendo il fatto che la geopolitica sia l’unica chiave possibile per interpretare la guerra in Ucraina, o quanto meno la principale. Sono nate riviste e speciali di geopolitica, ed è passata in un certo senso l’idea che parlare di geopolitica equivalga a fare “analisi di politica internazionale” (cioè analisi dei rapporti tra stati e altre entità che agiscono nel mondo), o equivalga a spiegare le “decisioni di politica estera” degli stati (cioè spiegare perché un paese decida di concentrare le proprie risorse e attenzioni su un obiettivo invece che su un altro).
Le cose in realtà stanno diversamente: la geopolitica è solo uno dei tanti modi di spiegare e raccontare la politica internazionale e la politica estera. E benché sia molto popolare secondo esperti e studiosi ha diversi limiti, spiegabili in parte col modo in cui la teoria è nata ed è stata usata nella storia. Oggi la geopolitica è utile a capire alcuni aspetti della guerra in corso, ma non a comprenderla nel suo insieme. Offre inoltre una spiegazione piuttosto parziale delle cause dell’invasione.
Cos’è la geopolitica
Non è semplicissimo definire la geopolitica, anche perché col tempo ne sono state date varie letture e interpretazioni. Si può dire però che sia una teoria delle scienze sociali che sostiene che il comportamento degli stati e la politica internazionale siano interpretabili sulla base di variabili soprattutto geografiche: non solo nel senso di configurazione fisica del territorio, ma anche della sua economia, delle sue risorse e del suo grado di sviluppo.
Semplificando molto, nella sua accezione più classica la geopolitica vede gli stati come organismi che hanno bisogno di spazio vitale – fatto di territorio fisico e risorse di varia natura – per poter mantenere prospettive di sviluppo. Teorizza inoltre che la politica internazionale sia fondata soprattutto su rapporti di forza per il controllo di quegli spazi e quelle risorse. «Il presupposto teorico della geopolitica è, di fatto, una forma di darwinismo sociale», dice il professor Luciano Bozzo, politologo e docente di Relazioni internazionali alla Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze: gli stati sono gli attori principali, e sono in perenne conflitto in un sistema in cui il successo di uno mette a rischio la sopravvivenza di un altro.
Alcuni studiosi ritengono che la geopolitica sia una teoria spesso cinica, che sostiene una visione del mondo in cui i rapporti tra gli stati siano un “gioco a somma zero” (quindi la vincita di uno stato equivale sempre alla perdita dell’altro), in cui conta soprattutto il tentativo di affermare la propria egemonia, e in cui la competizione vale più della cooperazione.
Come spiega Alessandra Russo, ricercatrice in Relazioni internazionali all’Università di Trento, secondo la geopolitica «gli attori rilevanti del sistema internazionale sono, di fatto, gli stati, e più nello specifico le potenze, o i paesi in grado di diventarlo».
In geopolitica, ha scritto tempo fa il politologo statunitense Harold James, «lo spazio conta più delle idee» e la politica internazionale è «un’amara ma inevitabile lotta a somma zero tra chi ha e chi non ha».
I limiti della geopolitica, tra scienza e politica
Al di là della condivisibilità o meno degli assunti di base della geopolitica, alcuni studiosi ed esperti ritengono che questa teoria, quantomeno nella sua versione classica e per come viene spesso divulgata, sia estremamente parziale e fornisca un’interpretazione riduttiva della politica internazionale: spiega alcune cose, ma non ne spiega molte altre.
Questi problemi sono presenti soprattutto nella geopolitica classica, cioè nella disciplina per com’era nata all’inizio del Novecento, ma rimangono in parte anche nella teoria geopolitica attuale, sebbene decenni di discussioni e studi li abbiano attenuati.
Anzitutto, far discendere le relazioni internazionali dalla geografia finisce spesso per scadere in un certo determinismo, per cui «la posizione sulla mappa determina il comportamento politico di uno stato», dice Russo. La presenza di uno stato sulla mappa, tra l’altro, viene considerata un dato oggettivo e immutabile e non il risultato di processi politici e culturali, che sono recentissimi: il concetto di stato moderno, quello a cui si riferisce la geopolitica, ha infatti poco più di 200 anni. «Potremmo dire che la geopolitica classica si basa su una specie di feticismo cartografico», dice Russo.
Un altro grosso limite della geopolitica, forse il più evidente e strettamente legato al primo, è che nelle sue analisi tende a non tener conto di cosa succede dentro agli stati, che sono sistemi complessi, ricchi di conflitti interni, fatti di popoli con ambizioni e aspirazioni molto diverse tra loro, che rendono complicato anche soltanto definire il concetto di “interesse nazionale”. Basti guardare quello che sta succedendo nella politica italiana proprio riguardo alla guerra in Ucraina: quello che viene interpretato come “interesse nazionale” dalla Lega non corrisponde alla stessa valutazione fatta per esempio dal PD, che ha un approccio molto più critico nei confronti della Russia di Putin pur considerandone l’importanza strategica, tra le altre cose nel settore energetico.
La geopolitica, in altre parole, sembra non considerare che gli stati sono entità in grado di autodeterminarsi oltre che di essere determinati dalla propria necessità di espandersi, e che il modo in cui agiscono dipende soprattutto da decisioni prese da individui e comunità politiche.
La geopolitica, infine, non tiene conto nemmeno del ruolo che, in determinati contesti della politica internazionale, hanno organi sovranazionali come le Nazioni Unite, oppure le organizzazioni non governative, locali e non: considera rilevante solo la volontà degli stati, e considera che esista una sola fonte di potere dentro ciascuno stato (quella del governo centrale). Nella sua visione un po’ riduttiva di “stato”, la geopolitica considera queste entità marginali, scrive Andrea Ruggeri, docente di Relazioni internazionali all’Università di Oxford e autore di un recente saggio su questo argomento.
«Le geopolitica è una teoria molto “comoda”», dice Russo, perché spesso «trascura i tanti dati che compongono un territorio, uno spazio»: trascura per esempio i moltissimi soggetti che agiscono al suo interno, i rapporti tra loro, le caratteristiche delle leadership e le loro ambizioni. Tutte queste «sono conoscenze che richiedono anni di ricerche e studi, lavoro sul campo, questionari e dialoghi con tantissimi interlocutori», prosegue Russo, che ha partecipato a una ricerca di questo tipo proprio sulla crisi ucraina, collaborando a un grosso studio finanziato dall’Unione Europea sul ruolo avuto dall’Unione nei conflitti nel Donbass tra il 2014 e il 2015.
Per questo c’è anche chi ritiene che la geopolitica abbia fondamenti piuttosto labili: «È una narrazione, allettante e affascinante, della politica internazionale, senza reali basi scientifiche», dice Bozzo, e molto spesso «spuria e inquinata da interessi e condizionamenti politici».
La geopolitica come «clava degli autocrati»
I limiti della geopolitica si spiegano anche con la sua storia: non solo con il contesto in cui è nata, ma anche da come è stata usata nel corso del Novecento.
Il termine “geopolitica” fu inventato all’inizio del secolo dal politologo e politico conservatore svedese Rudolf Kjéllen, noto per le sue posizioni nazionaliste e la sua visione piuttosto aggressiva della politica estera: Ola Tunander, professore al Peace Research Institute Oslo (PRIO), ha scritto che Kjéllen «considerava la guerra uno strumento per rafforzare la nazione».
Più in generale, la teoria della geopolitica si è sviluppata in un momento storico in cui vari paesi europei, come per esempio la Germania e l’Italia, erano interessati ad affermarsi come grandi potenze: «È una narrazione nata sulla base di precisi interessi politici, di paesi che avevano bisogno delle prospettive di sviluppo e crescita che la geopolitica presentava come fondamentali, di una teoria, potremmo dire, che orientasse le loro decisioni future», spiega Bozzo.
Anche per questo, la geopolitica fu popolarissima in vari regimi caratterizzati da politiche espansionistiche, che la usarono per legittimare e giustificare le proprie azioni: «Nella storia la geopolitica è sempre stata usata come clava da vari autocrati», dice Bozzo. Il nazismo, con la sua teoria del lebensraum, dello spazio vitale di cui la nazione tedesca si sarebbe dovuta appropriare con la forza, è il caso più noto, ma in forme diverse e più attenuate accadde anche col fascismo in Italia, e con governi autoritari più recenti.
Tra questi c’è la Russia di Vladimir Putin, il cui regime sostiene che il paese abbia un preciso «destino geopolitico», come ha spiegato l’analista russo Maxim Trudolyubov del centro studi Wilson Center. Ancora la scorsa settimana, Putin si è paragonato allo zar Pietro il Grande, dicendo che è «destino» della Russia «riconquistare» l’Ucraina.
Ciò non significa che la geopolitica sia usata esclusivamente da regimi e governi autoritari. Negli ultimi anni, per esempio, la parola “geopolitica” è stata usata ampiamente anche dalla Commissione Europea. Ma sono i governi autoritari che quasi sempre fanno uso della geopolitica come strumento di propaganda interna o all’estero, e per giustificare (a volte retroattivamente) le loro azioni in politica estera o gli interventi militari, presentandoli come qualcosa di inevitabile.
La geopolitica nel dibattito sull’invasione dell’Ucraina
I limiti della geopolitica diventano piuttosto evidenti nel dibattito sulla guerra in Ucraina. Definire le cause della guerra in termini amplissimi e basati soltanto sulla teoria, come hanno fatto alcuni commentatori che parlano di “espansione della NATO”, “difesa della sfera d’influenza russa”, o che parlano direttamente di “interessi geopolitici”, trasformando la geopolitica in una specie di tautologia, finiscono per perdersi le motivazioni e i fenomeni più profondi.
Quando si parla genericamente di “espansione della NATO”, per esempio, si finisce per tralasciare che l’adesione di alcuni paesi ex sovietici all’Alleanza Atlantica non fu un atto unilaterale, e tanto meno imposto forzatamente o militarmente: avvenne piuttosto su base volontaria. Furono prima di tutto gli stati che avevano vissuto per decenni sotto l’influenza sovietica a volerne uscire dopo la Guerra fredda, attirati dal modello politico occidentale, o dal timore di ricadere sotto il controllo russo. L’allargamento della NATO fu quindi anzitutto il frutto delle decisioni dei parlamenti e dell’opinione pubblica di quegli stati: di fattori quindi che tendono a non venire considerati all’interno della teoria della geopolitica (quanto meno nella sua versione classica).
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Allo stesso tempo, dire che la Russia ha invaso l’Ucraina per “difendere la sua sfera d’influenza” (espressione comunque assai vaga e usata da molti governi per fini propagandistici) rischia di ignorare le varie tensioni che esistono all’interno del regime russo. Tende inoltre a non considerare le note ossessioni importanti di Vladimir Putin, che da anni fa una politica estera esplicitamente finalizzata a “far tornare grande” la Russia, assicurarle nuovamente un posto importante nella politica globale (come si era visto con la guerra in Cecenia, in Siria e con l’invio di militari e mercenari, per esempio in Libia).
Questo modo di interpretare i fatti – che quasi toglie volontà propria alla leadership di un paese – potrebbe suggerire che la Russia si sarebbe comportata alla stessa maniera se il presidente fosse stato un altro politico diverso da Putin. È però un’affermazione molto difficile da sostenere: sia perché le decisioni dei leader politici hanno degli effetti notevoli e concreti sulla vita di uno stato; sia per l’eccezionalità del regime putiniano, che dura da due decenni e che ha trasformato in maniera significativa la Russia, e dell’invasione stessa dell’Ucraina, un’offensiva militare che per estensione e ambizione ha lasciato stupefatto mezzo mondo.
L’interpretazione della guerra in Ucraina secondo la teoria geopolitica ha inoltre portato molti, più o meno consciamente, a sostenere che inviare armi agli ucraini avrebbe favorito una “guerra per procura”, cioè avrebbe spinto la NATO a usare gli ucraini per fare la guerra alla Russia. Il problema di questo approccio è che, ancora una volta, non considera le volontà e le ambizioni degli stati meno influenti, come l’Ucraina; così come non considera le differenze esistenti tra diversi paesi europei, che hanno deciso di mandare aiuti militari con coinvolgimenti e prudenze diverse, a seconda delle volontà dei partiti politici nazionali e dell’intensità e dell’importanza dei rapporti con la Russia.
Insomma: la decisione di inviare le armi, e quali tipi di armi, non è stata inevitabile di per sé, ma il frutto, di nuovo, di processi politici complessi, che la teoria geopolitica spesso sembra sottovalutare.
Ovviamente, gli interessi di uno stato per come sono interpretati dalla geopolitica rimangono rilevanti e spesso determinanti, ma ragionare esclusivamente in questi termini rischia di essere riduttivo, soprattutto quando la geopolitica viene presentata nelle sue forme più semplici, per esempio sui media o nei dibattiti pubblici: «Una delle accuse rivolte alla geopolitica, nella sua visione binaria e un po’ semplificatoria, è proprio che non sappia interpretare correttamente i cambiamenti e le trasformazioni nel tempo», spiega Alessandra Russo.
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L’ossessione per la geopolitica
Secondo gli esperti con cui ha parlato il Post, l’onnipresenza della geopolitica nel dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina ha varie ragioni. In diversi paesi europei l’interesse per la geopolitica si è intensificato soprattutto negli ultimi anni: in Italia, al suo successo ha contribuito soprattutto la rivista Limes, nata all’inizio degli anni Novanta. «Limes ebbe il merito di recuperare una disciplina che rimase per decenni associata al fascismo, e fu per questo in larga parte ignorata», dice il professor Luciano Bozzo.
Già allora Limes rispose a un’esigenza piuttosto diffusa: «Dopo la fine della Guerra fredda e del rigido bipolarismo che l’aveva caratterizzata, c’era un grande, rinnovato interesse verso la politica internazionale».
Il recupero della geopolitica fu un modo di soddisfarlo, ma in Italia non fu poi accompagnato da un investimento più strutturale nella conoscenza e nello studio della politica internazionale o della politica estera: «Anziché diventare più continentale e globale, [l’Italia] sembra aver scelto una via più insulare e nazionale, dove la politica estera è discussa solo come geopolitica, perché la politica internazionale tende a non essere studiata, pensata e pianificata», scrive lo studioso Andrea Ruggeri.
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di
www.ilpost.it
2022-06-13 14:10:29 ,