Blade rappresenta ancora oggi, dopo un quarto di secolo, un momento spartiacque di cui non si parla abbastanza, a dispetto del suo status di gioiellino connesso alla sperimentazione di genere, cercata, voluta. Ricordare il 25° anniversario dell’uscita in sala di questo film, significa fare un viaggio nel tempo, ma soprattutto ricordarci di una cosa: senza questo horror fantasy, tutto ciò che abbiamo avuto nel XXI secolo dai cinecomics, così come dal genere vampiresco, non sarebbe esistito.
Un Dhampyr simbolo della blaxploitation
Era il 1973 quando Blade vedeva la luce, grazie all’inventiva di Marc Wolvman e Gene Colan. Inizialmente concepito come mero comprimario, seppe però guadagnarsi il suo spazio all’interno della Marvel, diventando in breve motivo d’attrattiva per i fan dell’horror e dei vampiri.
Wolfman ebbe l’intuizione di rivolgersi al pubblico afroamericano in primis (che all’epoca non aveva grandissimi punti di riferimento a parte Black Panther), così come ad un certo rivolo della subcultura giovanile, quella dell’hard rock che prendeva sempre più piede. Blade in pratica diventò una sorta di Shaft potenziato, un supereroe oscuro, carismatico, a suo agio in una notte urbana perenne, costantemente sul piede di guerra contro i Vampiri.
Questi esseri vennero descritti come padroni invisibili del mondo, predatori divisi in classi, spietati, sadici, e lui, al secolo Eric Cross Brooks, era strettamente legato al loro mondo. Con Blade infatti fu portato alla luce il concetto di Dhampyr, lo stesso che poi avrebbe recuperato la Bonelli con il suo celebre personaggio. Blade era il frutto dell’unione tra un vampiro maschio e una donna umana. Immune alla luce del giorno, così come all’aglio, all’argento, era però bene o male afflitto dalla sete di sangue umano. Di base era un ibrido tra i due mondi, un punto d’unione votato alla solitudine, alla conflittualità, sorta di metafora di quella parte della comunità nera che nell’America divisa da violenza razziale e politica era all’angolo.
Shaft non lo abbiamo citato a caso. Richard Roundtree doveva essere l’interprete di un film mai realizzato sul personaggio, ma solo nel 1992 la Marvel si mosse. Il divo rap LL Cool J era la prima scelta, ma David Goyer, scelto come sceneggiatore, li convinse innanzitutto a staccarsi dalla visione dei vampiri come erano stati concepiti per Intervista Col Vampiro, e a legarsi piuttosto all’horror-fantasy visto in Dal Tramonto all’Alba. Il personaggio venne pesantemente modificato, apparvero chiare le influenze della saga di Highlander, così come il voler creare una sorta di ninja notturno, armato non più solamente di pugnali da lancio (come nella versione cartacea) ma di una spada che richiamasse anche gli elementi del cinema di arti marziali classico, del wuxia.
Più che al corso di Bruce Lee, Blade nella mente di Goyer doveva strizzare l’occhio ai film di Sonny Chiba, maggiormente caratterizzato in termini di violenza, di western urbano. Ma quale attore scegliere? Si fecero in nomi di Denzel Washington, di Laurence Fishburne, entrambi molto quotati e apprezzati. Goyer però sapeva già chi voleva veramente: Wesley Snipes. Carriera strana la sua, a metà tra l’autoriale e il commerciale. Non è mai diventato una star, ma è finito in diversi tra i progetti più interessanti del suo tempo, lavorando con grandi autori. Oltre ad avere il fisico del ruolo, ad essere un esperto di arti marziali, Snipes (che sperava la Marvel lo coinvolgesse in un stand alone su Black Panther) assomigliava molto al personaggio, ed era già stato coinvolto in diversi action di rilievo.
Un film capace di connettersi a più generi
Dopo 25 anni guardare al risultato di questo film, significa bene o male fare i conti con ciò che poteva essere ma giocoforza non poté non essere. Blade non aveva nulla, anzi meno di nulla, in comune con il classico film supereroistico. La fotografia di Theo van de Sande, i costumi di Sanja Milkovic Hays, le scenografie del trio Petruccelli, Chusid, Grande, convogliarono nello sposare Blade alla cause del cyberpunk. Il genere era all’apice e contemporaneamente agli sgoccioli, di lì a pochi mesi ci avrebbe pensato la saga di The Matrix a fargli raggiungere il suo apice e dare anche il via al suo declino. Ma è un dato di fatto che Blade abbia saputo cogliere la natura post-moderna del cinema del suo tempo, unire in sé più generi.
Il famoso “bullet time” del resto non comparve per caso nel film, che a dirla tutta aveva sequenze di combattimento e action degne del meglio del cinema di Hong Kong, un dark humor dosato con giustezza, ma soprattutto un’atmosfera sanguinolenta e lugubre. Lo stesso villain, il Diacono Frost di un mefistofelico e fighetto Stephen Dorff, si stacca dal classico vampiro algido e nobile, abbraccia l’essenza dei uno Scarface. Perché, ed è questo un altro aspetto interessante, Blade strizza l’occhio al mafia movie, al crime, a Kurosawa, Leone e De Palma, nel concepire uno “Straniero col nome tagliente” che lotta contro il nuovo astro nascente di un universo che è criminale, non semplicemente mostruoso. Blade smette di essere un cinecomic, diventa un film impossibile da non amare perché connesso a molte anime.
Blade avrebbe prolungato l’era del cyberpunk di un po’, avallato la nascita della saga di Underworld, avrebbe avuto un seguito magnifico diretto da quel maghetto di Guillermo Del Toro, capace di connettersi a Shakespeare, di elevare l’insieme verso una nuova direzione.
Poi sarebbe arrivato il terzo, orribile episodio, ma già era un’altra era, già si era deciso di rendere il tutto più basso per cercare di raggiungere un pubblico più ampio. Errore madornale. Ma una cosa è certa, per la prima volta si capì che un personaggio dei fumetti poteva oggettivamente piacere al pubblico, vi fu il primo vagito di una creatura che con Spider-Man di Sam Raimi, avrebbe spiegato le ali in modo iconico.
Dopo di allora i vampiri sono tornati nelle loro vesti tradizionali, se si fa eccezione per perle come Castlevania, il recente Demeter, da Dracula Untold fino a Morbius, l’esempio di Blade non è più stato seguito. Rimane il rimpianto per quella stagione cinematografica, distante dai condizionamenti eccessivi delle Major, dove la qualità era la prerogativa, inseguita con affezione. Non stupisce la difficoltà incontrata per il remake con Mahershala Alì, del resto oltre allo scomodo precedente, c’è anche l’identità di un personaggio connesso ad una violenza che la dimensione stucchevolmente familiare dei cinecomics ha bandito. Forse quando l’Mcu sarà solo un ricordo, torneremo ad avere il cacciatore di vampiri più fico di sempre, non prima.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-08-21 07:48:45 ,