Oppenheimer da oggi è nelle nostre sale e c’è da giurarci che anche da noi sarà un grande successo così come non mancherà di far discutere, di lasciare negli spettatori una sensazione anche di mistero. Odissea intima e sovente inquietante, il film ha affascinato anche per la coesistenza del bianco e nero più elegante, assieme alle immagini a colori, mutevoli però nella loro essenza. Ma perché Christopher Nolan ha scelto questa strada? La spiegazione è un tuffo dentro la semantica di un regista unico.
Un film potentissimo ma enigmatico
Oppenheimer, l’ultima fatica di Christopher Nolan, dedicata all’opera e alla vita del geniale fisico, colui che fu messo al capo del progetto Manhattan da cui scaturì la rivoluzione nucleare, è stato accolto in modo a dir poco entusiasta dalla critica, così come dal pubblico. Tuttavia, come sempre capita con il regista britannico, perdurano domande senza risposta, quesiti, legati non tanto alla sceneggiatura o alle svolte narrative (non solo) usate per parlarci di una delle personalità più controverse dell’epoca moderna. Perché è soprattutto la dimensione visiva ed estetica, dove il bianco e nero domina appaiato spesso da una cromaticità vivida e intensa, ad aver affascinato. Ma qual è la spiegazione finale? Come sempre, con Nolan, ciò che vediamo e ciò che sentiamo sono connessi profondamente, in modo viscerale ed unico.
Il perché di tale scelta non è casuale del resto nulla con Nolan lo è. Regista da sempre amante dell’Imax, refrattario ad utilizzare la Cgi per ottenere un’immersione quanto più possibile verosimile e realistica, Nolan non è nuovo a queste prese di posizione, del resto il suo legame con gli addetti alla fotografia è sempre stato molto più forte di quello di tanti suoi colleghi. L’aver girato il film poi in 70 mm, privilegiando sovente i primissimi piani, i dettagli, sono altri elementi che messi insieme a quelli precedentemente elencati, ci forniscono un quadro abbastanza preciso della volontà da parte del regista, di avere quello che non è tanto un film su Oppenheimer, ma anche un film di Oppenheimer. Qui il suo punto di vista, la sua vita, la sua storia attraverso i suoi occhi hanno un peso, pari al necessario distacco da parte del narratore per far comprendere al pubblico la verità.
La contrapposizione come elemento visivo e narrativo
“Ho scritto la sceneggiatura in prima persona, cosa che non avevo mai fatto prima” ha dichiarato Christopher Nolan “Non so se qualcuno l’abbia mai fatto, o se sia qualcosa che la gente fa o non fa… Il film è quindi sia oggettivo che soggettivo”. Già qui si percepisca la complessità della sfida accettata da Nolan: creare un film in cui coesistano più punti di vista. C’è quello del protagonista, come nel più classico dei biopic, con l’oggettività di uno sguardo esterno capace di donarci una neutralità di giudizio e di opinione. Poi la confessione finale: “Le scene a colori sono soggettive, quelle in bianco e nero sono oggettive. Ho scritto le scene a colori in prima persona”
Vi ricorda niente tutto questo? Se siete fan di Nolan, non può esservi sfuggito come anche nel suo primo film, Memento, Nolan si fosse già affidato ad una tecnica simile, anche se con finalità narrative diverse. Il suo amore per il bianco e nero era già presente nella sua opera prima: Following, neo-noir elegantissimo, ambientato nella fumosa Londra del sottobosco criminale. Per Oppenheimer, Christopher Nolan si è affidato ad un mix unico nel suo genere: una IMAX da 65mm normale e un 70mm ad alta risoluzione, per permettere di valorizzare i dettagli di ogni inquadratura. Nolan ha chiesto a Kodak e FotoKem di creare per lui una pellicola fotografica per Imax in bianco e nero, cosa che non era mai successa prima di ora per un film.
La Storia e il suo duplice volto
Tutta questa gigantesca attenzione ai dettagli, era necessaria per la duplicità di visione qui proposta. Abbiamo i ricordi di Oppenheimer, il suo ottimismo per una pace definitiva, sovente distanti dalla verità oggettiva, connessi al suo punto di vista e basta. Il capitolo dedicato alla fissione, legato più profondamente alla sua vita, è infatti tutto a colori. Tale assenza poi a mano a mano che si va avanti tende a sparire, nel momento in cui si fa strada la fusione nucleare, creando uno sguardo sintetico connesso alla verità, scevra dal personalismo e dalla parzialità di visione. Tutto questo il regista lo crea mostrandoci quindi anche cromaticamente le sue aspirazioni, la sua sconfinata ambizione e vanità, che svaniscono a mano a mano che il tempo passa.
Egli infine si rende conto che ha sopravvalutato l’umanità, ha sopravvalutato anche i suoi colleghi e se stesso, la sua capacità di comprendere l’universo e l’essere umano. Invece di pensare a una regolarizzazione, a seguirlo nella strada di una mediazione tra le nazioni, necessaria ad evitare il pericolo di un olocausto nucleare, si lasciano intrappolare dalla politica, dall’arrivismo e dalla Guerra Fredda. Il bianco e nero compensa la narrazione soggettiva, ci accompagna nei momenti sicuramente più rivelatori, nel gran finale, in cui si fa da parte anche quel gioco di maschere, quel complotto, ordito per distruggere la reputazione e la carriera di un uomo sicuramente difficile, scomodo. Oppenheimer diventa quindi un film sulla Storia, quella in bianco e nero, fredda, adamantina, contrapposta alla quella individuale che è, e non può che essere, a colori.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-08-23 08:02:56 ,