Senz’altro pescata dal solito contesto più ampio nel quale, a onor del vero, il ministro si è lanciato in un paragone con gli Stati Uniti che “non possono insegnarci a mangiare” perché da noi c’è “una grande educazione alimentare, anche interclassista: infatti da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi perché cercando dal produttore l’acquisto a basso costo comprano qualità”. Ed ecco la conclusione: “Difendere il buon cibo e la qualità è anche una questione di qualità, per mettere le persone tutte sullo stesso piano”. Mentre negli Stati Uniti, ha spiegato il potente ministro, “hanno una criticità che devono rimuovere: un differente modello di educazione alimentare”. Eh già: noi abbiamo il vino del contadino.
Le allucinazioni delle destre
Viene davvero da chiedersi quale sia la logica dietro queste parole se non la solita, retrograda passione per l’immarcescibile piccolo mondo antico che tanto piace alle destre di tutto il mondo e che per quelle italiane si declina evidentemente in un ricordo (sbiadito, erroneo, intellettualmente manomesso) della famiglia di contadini che macella il maiale allevato con amore e si fa l’orticello dietro dimora. È una convinzione, quella di Lollobrigida, scollata dalla realtà. Persino alcune indagini recenti, come una del Dipartimento di Economia, società, politica dell’università di Urbino Carlo Bo, che in parte sembrerebbero marciare nella direzione del ministro, non possono non riconoscere che “famiglie a basso reddito hanno una tendenza maggiore a consumare diete sbilanciate e nello specifico sperimentano un basso consumo di frutta e verdura. Al tempo stesso una maggiore disponibilità economica non si traduce automaticamente in una dieta di migliore qualità, ma plausibilmente in un ampliamento della gamma di scelta degli alimenti”. La ricerca spiega inoltre che “più della metà degli intervistati attribuisce un’importanza notevole ai vincoli posti dalle risorse economiche”. I vincoli posti dalle risorse economiche, non i vantaggi o le possibilità.
Se poi il ministro voleva intendere che, alla fine, gli italiani cercano di cavarsela allora è un altro conto. E lo studio appena citato conferma infatti che quel “food social gap” viene in qualche modo mitigato: “I risultati dell’indagine infatti indicherebbero che nonostante i vincoli di tipo economico vengano riconosciuti come dominanti nei propri comportamenti, poi però una certa dicotomia sembra emergere tra la rilevanza attribuita idealmente ad ogni criterio di scelta e alla concreta realizzazione della scelta d’acquisto. Evidentemente entrano in gioco altri fattori, di tipo culturale, congiuntamente ad elementi di territorialità e di tradizione culinaria che in qualche modo compensano tali disparità”. Ma questo è un altro discorso: significa difendersi con quel che si ha e con ciò che si riesce a fare. Non che il povero mangi meglio.
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di Simone Cosimi www.wired.it 2023-08-25 08:57:24 ,