Reptile su Netflix è esattamente quello che cercate se amate un film capace di riportare il concetto di doppiezza, di ambiguità morale al centro di un poliziesco dove si evocano le atmosfere care ai grandi autori del genere. Non un film perfetto ci mancherebbe, ma incredibilmente equilibrato, dotato di grande ritmo e coerenza, un po’ come il nostro Il Legionario, e con un Benicio del Toro come al solito impeccabile. In un’atmosfera inquietante e macabra, si palesa il tema dell’innocenza perduta, della crisi morale di un paese.
Un crime di quelli che si facevano una volta
Reptile è la conferma che molto spesso non conta quello che si dice ma come lo si dice, conta lo stile, il ritmo, l’atmosfera, il tocco per così dire. Prima prova da regista di Grant Singer, scritto dallo stesso del Toro con Benjamin Brewer, si fa forte di un iter narrativo davvero interessante, personaggi tanto accattivanti quanto efficacemente caratterizzati da un cast indovinato in ogni componente. Il risultato finale non è un capolavoro, ma uno di quei film che una volta si sarebbero definiti robusti, derivativi nel senso migliore del termine. L’insieme appartiene ad una scuola, quella del thriller poliziesco americano, in grado di diventare narrazione decadente, in un mondo fatto di tradimenti, violenza e cupidigia, in cui luce e tenebra diventano così fortemente strette, da essere quasi indistinguibili. Reptile ha nella fotografia di Michael Gioulakis un’arma in più, che diventa grande protagonista, viene utilizzata per cesellare l’atmosfera di un dramma per immagini in cui il sole non compare mai, tuttalpiù è una presenza grigiastra. Qui si vive e si cammina soprattutto di notte, la sensazione di claustrofobia è nostra fedele compagna, così come lo è dei personaggi. Su tutti domina il Detective Tom Nichols (Benicio del Toro) un personaggio che una volta si sarebbe definito antieroe, che ha tra le mani con il resto della squadra Omicidi di Scarborough, nel Maine, un delitto tanto efferato quanto inspiegabile. Sarà invece il raggio di luce che illuminerà un gorgo di amoralità e avidità semplicemente scioccanti.
Il detective Nichols è finito tempo addietro nell’occhio del ciclone, è stato accusato di essere corrotto, infido, una vergogna per il distintivo. Assieme alla moglie Judy (Alicia Silverstone) ha cambiato città, ha ricominciato da capo. Passa gran parte del tempo libero assieme ai colleghi, Don (Ato Essandoh), Wally (Dominick Lombardozzi), il Capitano Allen (Eric Bogosian) e il comandante Graeber (Mike Pniewski) anche fuori dal Distretto. Nichols viene chiamato ad indagare sulla morte di Summer (Matilda Lutz), fidanzata di Will Grady (Justine Timberlake), un rampante imprenditore nel ramo immobiliare, trovata assassinata con decine di coltellate nella sua casa. Le indagini sembrano andare verso una soluzione logica, quasi scontata, ma anche grazie alle dritte dategli dal misterioso Eli (Michael Pitt), Nichols si renderà conto che nulla è ciò che sembra e che quel delitto è solo la punta di un iceberg gigantesco, con esiti imprevedibili. Reptile parte quindi da qualcosa di classico, di semplice, quasi banale, poi sopra ci costruisce una stratificazione narrativa in cui lo spettatore si trova infine completamente alla mercé del narratore, senza che vi sia, una volta tanto, quella maledetta prevedibilità a rovinare tutto, a rendere l’insieme qualcosa di già visto o già sentito. Il film tocca in più di qualche momento momenti altissimi, al netto di qualche magagna, che è stata però un po’ troppo severamente sottolineata dalla critica americana al Festival di Toronto.
Un racconto che si fa metafora dell’abisso morale
Benicio del Toro si muove con il suo iconico e cupo carisma, armato di uno sguardo che è unico tra gli attori della sua generazione, lo stesso che gli ha permesso in film come Soldado, le Belve, andando indietro fino alla sua rivelazione internazionale in quel capolavoro che era Traffic, di diventare il simbolo del lavoro in sottrazione. Anche qui sfoggia un’intensità affidata al connubio tra questa voce cavernosa, e la sua persistente penombra espressiva, più unica che rara. Solo lui poteva fare di questo Detective, il simbolo di una volontà (per certi tratti quasi ingenua) di riabbracciare se non la moralità, quantomeno un briciolo di verità, di salvezza. A fargli da spalla una ritrovata Alicia Silverstone, con cui forma una strana coppia di detective casalinghi. La cosa funziona anche perché Reptile riesce a trovare l’equilibrio giusto tra caratterizzazione dei personaggi, world building e sviluppo narrativo, in costante accelerazione. Ciò che vediamo qui è il loro mondo, i loro amici, mentre scopriamo la verità dietro quella ragazza morta in quella casa. Justin Timberlake si conferma interprete da non sottovalutare. Ne è passato di tempo da quando era una pop star, le luci dei riflettori non sono più da quelle parti, ma in compenso è cresciuto tantissimo come attore. Anche Lombardozzi è da applaudire. Caratterista di quelli robusti, ha lavorato in progetti di grande qualità e qui diventa simbolo perfetto della cultura machista, violenta, prevaricatrice dell’America, che poi è comune a tutti i protagonisti.
C’è qualcosa di James Ellroy così come del compianto Friedkin, e pure di David Fincher in Reptile, che è figlio di quel filone letterario e cinematografico in cui gli eroi sono banditi, in un quadro particolarmente fosco dell’umanità in esso contenuta. Può ricordare in più di un frangente una perla come Cop Land, non raggiunge mai il livello di L.A. Confidential ma è meglio di La Notte Non Aspetta. Ci fissiamo sugli edifici, macchine, i beni di consumo, che qui sono la porta verso un abisso morale che ci guida verso una raggelante rivelazione: non esiste la legge, non esiste la giustizia, i rapporti personali scompaiono di fronte al Dio denaro, si insegue il facile guadagno, la scappatoia, soprattutto dopo i 50, quando il futuro è grigio. Il sogno americano diventa la vita borghese e benestante, inseguita con ogni mezzo, costi quel che costi. Certo, Reptile a volte si dimentica qualche brandello di trama in giro, il personaggio di Michael Pitt meriterebbe forse maggior spazio, il finale rimane eccessivamente enigmatico, ma l’insieme è incredibilmente seducente, penetrante, nel ripeterci sempre e continuamente la maledizione individualista del sogno americano. Quest’ultimo è diventato incubo, porta verso un inferno dell’anima da cui neppure il protagonista può scappare. Completa il tutto una colonna sonora di Yair Elazar Glotman capace di essere l’ennesimo tassello di un film che per fortuna più che spiegare mostra, riuscendo così a raggiungere una potenza espressiva non da nulla.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-10-10 15:23:24 ,