Darby percepisce bugie e sincerità più con l’intuito e l’empatia che con logica e osservazione. Decisa a scovare la verità con inarrestabile abnegazione, non trova il supporto auspicato nella struttura iper tecnologica e iper sorvegliata gestita da Ray. L’intelligenza artificiale che regola la vita di Ronson e sul quale egli fa totale affidamento è rassicurante e vagamente familiare – ricorda un po’ il Poe di Altered Carbon – ma la sua presenza fluttuante e costante è molto più sinistra e raggelante. Ray non ha una personalità, è un’entità senziente che si istruisce da sola ed evolve autonomamente, la cui intelligenza è stimolata dall’ambiente circostante; quegli stimoli conducono a deduzioni logiche pure, totalmente non condizionate o regolate dall’intelligenza emotiva che equilibra i processi decisionali umani. Di sette episodi, non tutti mantengono lo stesso ritmo e lo stesso livello di attenzione; a volte vengono soffocati da dialoghi pesanti e dalla lunghezza eccessiva (alcuni superano abbondantemente l’ora).
Sarebbe bastato ridurre la stagione di un paio di puntate, sebbene a scapito di alcune sottotrame, per non afflosciare l’interesse dello spettatore. Su alcuni personaggi minori, come Lu Mei (un’inalterata Joan Chen) avremmo voluto indugiare maggiormente. Di certo, ad azzerare la coinvolgente atmosfera che l’intimità tipica dei racconti di Christie era in grado di creare, è la spersonalizzante atmosfera che circonda i personaggi, immersi in un’architettura algida e asettica, circondata dal fascino naturale di un’Islanda selvaggia e suggestiva. Anche quest’opera della Marling è perennemente avvolta da una cupezza di toni esasperante e da una volontà inespugnabile di azzerare qualsiasi sentore di ironia. Alla fine, tutto questo non importa: la rivelazione finale, ovvia eppure sorprendente dopo tante digressioni e depistaggi, aiuta a far dimenticare i difetti di A Murder at the End of the World.
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di Lorenza Negri www.wired.it 2023-11-14 15:00:00 ,