Il segno dell’infanzia, quel ricordo che ti fa tornare subito bambino. Tutti abbiamo cartoni preferiti e ognuno li reputa come capolavori. Non sempre, però, la produzione ha generato pellicole di grande rilevanza, a volte si sfocia nella banalità, in lungometraggi noiosi o privi di morale; forse non adatti ai bambini, ma neanche a colpire nel segno le emozioni degli adulti. Tra Disney, Pixar e DreamWorks, vi sono flop morali e privi di originalità.
Pocahontas II – Viaggio nel nuovo mondo, 1998
Solamente un’ora e dodici minuti di film, un po’ frettoloso come lungometraggio. Pocahontas II rappresenta esattamente il cliché del sequel non riuscito. Una pellicola prodotta dalla Disney nel 1998 e diretta da Bradley Ramon, ove lo scenario cambia totalmente, abbandonando la natura indiana per immergersi nella vita frenetica di Londra. In realtà la morale intrinseca detiene una sua rilevanza, d’altronde stiamo parlando di un film del ’98, dove la principessa indiana viene posta in una posizione di forza ed emancipazione rispetto a tutti gli uomini. Una trama che voleva incentivare la posizione femminile, affidando alla stessa Pocahontas il compito di convincere gli inglesi a non dichiarare guerra al suo popolo.
Forse un distacco eccessivo dal primo che, per quanto non detenesse connotati comici o caratteristiche in grado di ammaliare i più piccoli, il sequel ha perso perfino quell’accuratezza per i connotati storici, giungendo alla realizzazione di una sceneggiatura eccessivamente caotica e dispersiva. Ma ciò che lascia senza parole è la fine di un amore, un amore che nella Disney dovrebbe essere eterno e vedere sempre il “vissero per sempre felici e contenti”, ma che, invece, in Pocahontas II si è preferito bloccare sul nascere. Nel primo film la principessa indiana sembrava essere destinata al cuore di John Smith, un cuore che invece sarà spezzato totalmente dopo che la scelta ricadrà su John Rolfe, un nuovo personaggio introdotto nel secondo lungometraggio. Un cambio di scena che non è stato trattato fino in fondo, che non ha coinvolto ed entusiasmato gli spettatori; d’altronde non si possono narrare le paturnie del cuore in soli 72 minuti. “Pocahontas II – Viaggio nel nuovo mondo” ha trasmesso tristezza per l’addio di un amore, svogliatezza nella stesura della trama, per non parlare della frettolosità con cui le scene si susseguono. Un film poco coerente con il primo, che non ha suscitato l’interesse o l’entusiasmo degli spettatori, piuttosto ha fatto nascere un forte sentimento di critica e noia.
Mucche alla riscossa, 2004
Un lungometraggio Disney del 2004, l’ultimo ad essere stato prodotto con le tecniche d’animazione tradizionali in 2D; inizialmente un successo in America, ma che man mano cade nel dimenticatoio. Una pellicola che non ha ammaliato tutti gli spettatori e che si è fermata all’attrazione di un pubblico eccessivamente di giovane età, non riuscendo a colpire la generazione under10. “Mucche alla riscossa” risulta essere uno di quei film a cui la Disney non ha dedicato la sua intera cura, motivo per cui emergono trascuratezza e superficialità. Dai disegni essenziali, ma non articolati, a un’animazione desueta e poco curata emerge un’animazione priva di carattere che trascina verso il basso la Major americana.
In teoria una pellicola comica, che dovrebbe suscitare il riso nel pubblico, ma che pone, al centro della scena, dei personaggi fastidiosi che non riescono a stimolare una reale simpatia. Una comicità uscita male, che non è riuscita a raggiungere il proprio intento, sfociando perfino in un piccolo umorismo alternato alla vera indifferenza.
Un film di animazione con una trama apatica, dove le tre mucche che si alleano per salvare la fattoria della propria padrona dalle grinfie del bandito Slim, non bastano per creare un lungometraggio leggendario. “Mucche alla riscossa” rientra tra i flop dei cartoni animati, dove il tentativo di produrre una pellicola comica che coinvolgesse il pubblico, ha raggiunto solamente la definizione di essere la meno brillante di sempre.
Frozen II -Il segreto di Arendelle, 2019
Un sequel proposto dopo sei anni, forse eccessivi per un film di animazione. Anni in cui le pretese crescevano, sperando nella realizzazione di una pellicola Disney che ci portasse per mano in un mondo colmo di magia. Una magia che, invece, scarseggia in “Frozen II” che pone al centro della scena il tema dell’identità individuale, dei modi per conoscere le proprie origini, la propria storia. Una trama un po’ superficiale, che tenta di offrire un’ampia morale al tema della femminilità cadendo, invece, nella superficialità, una frivolezza coperta da canzoni costantemente inserite che distraggono lo spettatore. Perfino i personaggi non hanno subito un’evoluzione, anzi, è come se le loro avventure si fossero appianate, come se la riscoperta interiore avesse condotto ad un appiattimento della magia. Il personaggio di Elsa, fondamentale nel primo film per il riconoscimento del valore della donna, diviene privo di anima; per non parlare di Olaf, una spalla che non sarà mai equiparabile ad un Ciuchino della situazione, dov’è la furbizia? L’ironia? Ideato per essere un nonno saggio nelle vesti di un pupazzo di neve, dove tra sermoni paternalistici e visioni buoniste perde quella carica degna di nota del “migliore amico”.
Una pellicola che si muove a seconda di dove tira il vento, in cui i personaggi non agiscono per un motivo preciso ed evidente, ma solamente perché è giusto che qualcosa cambi, è giusto che sia fatto così, forse perché si è convinti che cantare canzoni e cavalcare cavalli basti per produrre un cartone degno di nota. Una morale assente, una mancanza essenziale che per quanto volesse essere coperta dal tema delle donne, ha visto solamente la realizzazione di uno scenario in cui Anna, la regina del Regno, cerca di combattere una guerra che, però, non viene percepita dallo spettatore e che probabilmente è una mera imitazione della storica “Mulan”; piuttosto che la riduzione del povero Kristoff ad un destino vacuo, inerme e privo di influenza verso il prossimo. Perché alla fine per incentivare i valori della donna serve solamente porre l’uomo in una posizione estremamente inferiore e priva di spessore!
Spirit -Il ribelle, 2021
Un lungometraggio DreamWorks, che forse sperava di raggiungere il prestigio e l’eccezionalità di “Spirit, cavallo selvaggio” del 2002, non avvicinandocisi minimamente. Dopo diciannove anni qualsiasi remake risulterebbe privo di energia per un veterano, anzi, molto spesso viene classificato direttamente come un flop, d’altronde è difficile equiparare un cult come l’originale, un film con una morale immensa, dove la libertà e la famiglia sono i fondamenti di ogni azione, colpendo direttamente il cuore dello spettatore, del bambino, che lo porterà con sé per sempre.
“Spirit, il ribelle” narra la storia di Lucky, una piccola orfana che combina un guaio dopo l’altro; proprio per questo la zia e il nonno decidono di mandarla da suo padre Jim, un padre che lei non ha mai conosciuto. Durante la strada il suo destino si incrocia con quello di Spirit, un cavallo di razza mustang, con cui scatta fin da subito la magia. La storia di un salvataggio e di una sintonia con il mondo animale, di quel feeling con l’amico a quattro zampe che per quanto sia degna di essere raccontata, risulta appartenere ad uno stereotipo fin troppo noto.
Infatti, per quanto non sia tanto la trama ad essere classificata come negativa, comunque i suoi connotati non sono, forse, sempre adatti ai bambini. Il messaggio che traspare non è dotato di serenità, valore e coraggio, un cartone animato non dovrebbe iniziare con la morte di una madre e l’assenza di un padre: una cosa negativa è un inconveniente, due sono una tragedia. Invece di andare avanti, la Disney sembra riprendere quegli schemi fissi che emergono dai film del passato, dal “Dolce Remì” ad “Heidi”. La morte, piuttosto, sembra essere la protagonista del film, forse perché in memoria del regista dell’originale “Spirit, cavallo selvaggio”, deceduto prima della realizzazione di questo nuovo lungometraggio, è stata presentata una produzione in cui la vita della madre scomparsa viene più volte ripercorsa, dando un po’ uno scossone ad un pubblico che dovrebbe essere destinatario di un messaggio di speranza e positività.
Lucky, la bimba protagonista, è il classico cliché delle nuove generazioni: una vita stravolta da un miliardo di tragedie, sola contro tutti, ma dove i suoi traumi e dolori non avranno la meglio. Una caratteristica che cade, però, nella più completa banalità, dove, nuovamente, per porre al centro la figura femminile le vengono affidate fin troppe qualità e potenzialità, mentre, invece, l’uomo è in una mera posizione secondaria, in questo caso perfino anonima, come quella del padre. Non vi è originalità nella storia, quanto nei messaggi intrinseci come quelli volti alla sostenibilità ambientale.
La prevedibilità è la pecca più grande di “Spirit, il ribelle”.
Ruby Gillman – La ragazza con i tentacoli, 2023
È esattamente come quando da piccoli si gioca al “giorno del contrario”, ecco forse “Ruby Gillman, la ragazza con i tentacoli” presenta un mondo al contrario, dove i mostri sono i buoni e i soliti personaggi positivi sono i cattivi. Un reverse remake de “La Sirenetta”, in cui la principessa dai capelli rossi vive già tra gli umani, ma non è lei a far parte dei buoni nella storia, ma è un’altra ragazza, Ruby, che quando si rivela non è una bella sirenetta, piuttosto un kraken, esattamente come Ursula.
Una pellicola che ha tentato di porre in luce i temi principali che oggi conducono un film al successo, dal femminismo, all’abbattimento degli stereotipi sulla bellezza, alla considerazione del nerd, ponendo al centro della scena il tema dell’accettazione di se stessi. Una morale che man mano perde la sua carica, il suo valore, dato che infine la soluzione al problema della protagonista, ovvero quello di essere un kraken e far parte dei “mostri”, non sarà il ribaltamento dei meccanismi insiti nella popolarità e nell’abbattimento degli stereotipi, quanto il meccanismo dell’eccezionalismo, ovvero affermarsi come la più popolare nel suo contesto. Un qualcosa che la renderebbe speciale, migliore, ma di base non vede il risvolto di una vera accettazione. Un’idea non troppo originale, dato che era già stata realizzata dalla Pixar con il lungometraggio “Luca” del 2021, sia per quanto concerne l’inversione di personaggi, che per il tentativo di raggiungere, finalmente, un amore per la propria persona.
“Ruby Gillman” risulta essere una pellicola che vede il mondo umano dominato dalla tristezza, forse un qualcosa ormai di noioso da vedere per uno spettatore; una morale che traspare molto spesso e che mira alla presentazione di una terra che non va bene, che deve essere modificata e dove invece, la vita in un’altra dimensione è sempre migliore, priva di tristezza e delusioni, piuttosto colma di avventure. Un messaggio che non conduce un bambino al desiderio di combattere per migliorare il proprio mondo, quanto alla ricerca di un escamotage per scapparne, dato che vive in una realtà posta solamente in un’ottica negativa. Dov’è qui l’amore e l’accettazione? Una descrizione della terra meramente negativa, dove la tristezza e la cattiveria regnano sovrane, perché alla fine sono i mostri quelli buoni, anche se bisogna emergere perfino nell’essere mostri per essere qualcuno.
Ecco cosa si evince dal reverse remake de “La Sirenetta”, l’accettazione è possibile, ma sempre se prima vi è quella di qualcun altro e soprattutto, quando si riconosce la propria eccezionalità rispetto agli altri. Forse non proprio un messaggio d’impatto e positivo. “Ruby Gillman, La ragazza con i tentacoli” è un film privo di originalità, che però riesce ad ottenere riconoscimenti per il design di neon, le grafiche e le fluorescenze, che lo conducono ad un prestigio dal punto di vista illustrativo. Rapporti tra personaggi non approfonditi, una leggerezza a volte imperdonabile, viste le tante parole, ma le poche immagini: non si può proprio parlare di un nuovo successo per la Disney.
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di Chiara Frongillo
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2024-04-30 12:31:58 ,