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Data : 2024-05-27 16:08:36
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La scorsa settimana la Conferenza episcopale italiana (CEI), cioè l’assemblea dei vescovi italiani, e il suo presidente Matteo Maria Zuppi hanno diffuso dichiarazioni e documenti ufficiali commentando in maniera molto critica i due principali progetti di riforma del governo guidato da Giorgia Meloni: la riforma costituzionale che introduce il cosiddetto “premierato” (l’elezione diretta del presidente del Consiglio, molto cara a Fratelli d’Italia), e l’autonomia differenziata per dare maggiori poteri alle regioni, voluta dalla Lega. A proposito di quest’ultima, la CEI ha detto che «rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica», mentre sulla riforma costituzionale Zuppi ha detto che andrebbe affrontata come qualcosa che «non sia di parte».
La nettezza di queste prese di posizione, e la decisione di intervenire direttamente su temi sensibili del dibattito politico due settimane prima delle elezioni europee dell’8 e del 9 giugno, ha suscitato alcune polemiche e reazioni infastidite, soprattutto da parte di esponenti del governo e della maggioranza parlamentare di destra.
Non è insolito che la CEI prenda parte al dibattito politico italiano per manifestare l’orientamento dei vescovi e dare indicazioni all’elettorato cattolico italiano. Semmai è insolito che lo faccia con toni perentori, in esplicita contrapposizione al governo e a ridosso di un delicato appuntamento elettorale. L’approccio interventista e la decisione di schierarsi in maniera chiara ricordano per certi versi una stagione passata, in cui la CEI era guidata da Camillo Ruini, che è stato il presidente della CEI politicamente più esposto negli ultimi quarant’anni. Stavolta, però, l’orientamento della CEI è opposto: se le ingerenze di Ruini nella politica italiana erano ispirate da un’ideologia conservatrice e a tratti reazionaria, in sintonia con quella di papa Giovanni Paolo II, Zuppi esprime invece una visione in generale più progressista, grosso modo in linea con quella di Francesco.
Questa differenza di approccio riflette sia le convinzioni dei papi di allora e di oggi, sia le storie personali dei presidenti della CEI. Filosofo e teologo precoce e di grande rilievo, Ruini, nato a Sassuolo nel 1931, entrò presto nelle grazie di Giovanni Paolo II, che lo nominò cardinale nel 1991 (aveva sessant’anni, un’età relativamente giovane per il ruolo). Nello stesso anno, dopo che già nei cinque anni precedenti era stato un influente segretario generale della CEI, ne divenne presidente sempre per volere del papa, rimanendo in carica fino al 2007: un mandato quindi di 16 anni, tuttora il più lungo da quando la CEI fu fondata nel 1952.
Iniziando a operare nel momento storico in cui il partito di riferimento dei cattolici, cioè la Democrazia Cristiana, si avviava verso un progressivo e irreversibile declino, e dopo aver invano tentato di favorire la nascita di un nuovo partito centrista e conservatore, Ruini finì col tempo per assegnare alla CEI un ruolo fino ad allora inedito, molto più politico rispetto al passato, fino a farlo diventare di fatto l’organo di riferimento dei cattolici impegnati nella vita pubblica italiana. In particolare, Ruini esercitò un’azione di costante e consapevole contrapposizione ai governi di centrosinistra guidati da Romano Prodi tra il 1996 e il 1998 e poi soprattutto tra il 2006 e il 2008, portando invece la CEI in una posizione di sostanziale e sempre più dichiarata simpatia nei confronti del centrodestra guidato in quel periodo da Silvio Berlusconi. Gli scontri più aspri col centrosinistra avvennero sui temi etici e sulle riforme per i diritti civili.
Per esempio, Ruini ostacolò con determinazione un ricorso più ampio alla fecondazione assistita, in linea con gli altri paesi occidentali: e nel 2005, durante la campagna referendaria promossa dai Radicali per modificare in senso più permissivo la restrittiva legge sul tema che era stata approvata dal centrodestra l’anno precedente, incitò esplicitamente e con successo all’astensionismo, così da sabotare l’iniziativa facendo mancare il raggiungimento del quorum (un referendum abrogativo è valido solo se più della metà degli elettori vota).
Nel 2006, come cardinale vicario di Roma, cioè il cardinale a cui il papa delega il governo della diocesi di Roma, negò i funerali religiosi a Piergiorgio Welby, l’attivista romano affetto da distrofia muscolare che decise di interrompere il trattamento sanitario a cui era sottoposto da anni. Ruini, risolutamente contrario a qualsiasi apertura legislativa nei confronti dell’eutanasia in ogni sua forma, rifiutò di concedere i funerali in chiesa a Welby perché secondo lui quello di Welby era stato un suicidio deliberato e dunque in contrasto coi principi della dottrina cattolica. Poi, con altrettanta assertività, Ruini fece una campagna di opposizione al governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi sul progetto di legge dei cosiddetti DICO, che introduceva una prima parziale forma di riconoscimento civile di coppie conviventi al di fuori del matrimonio, le “coppie di fatto”. Dopo una lunga polemica politica con divisioni anche all’interno dello stesso centrosinistra, il progetto fu accantonato dopo la caduta del governo nel maggio 2008.
Le incursioni nel dibattito politico italiano di Ruini erano assai disinvolte, ma a colpire in particolare erano i toni sferzanti utilizzati in dichiarazioni pubbliche e atti ufficiali. Ruini suscitava spesso scalpore, si attirava le critiche e le proteste soprattutto di parlamentari e commentatori di sinistra, e dava una dimensione più politica agli orientamenti ideologici di Giovanni Paolo II, specie nella fase finale del suo pontificato. Non a caso, questo atteggiamento nel guidare la CEI creò un neologismo nel gergo dei politici e dei vaticanisti: ruinismo, appunto. Lo stesso Prodi, ripensando agli anni del suo secondo governo, ha più volte definito Ruini come il suo più temuto esponente dell’opposizione.
Anche per l’effetto dirompente che ebbe il lungo mandato di Ruini nella ridefinizione dei rapporti tra la politica italiana e il Vaticano, i presidenti della CEI che seguirono – i cardinali Angelo Bagnasco tra il 2007 e il 2017 e Gualtiero Bassetti fino al 2022 – preferirono per quanto possibile evitare di esporsi in maniera chiara su temi politicamente controversi, cercando di ristabilire una sostanziale equidistanza dell’assemblea dei vescovi rispetto ai partiti. Ora, con Zuppi, le cose stanno un po’ cambiando.
Romano, nato nel 1955, Zuppi fu attivista della Comunità di Sant’Egidio, a cui è rimasto sempre legato. Già questo è un segno della sua distanza da Ruini: Sant’Egidio è infatti uno dei punti di riferimento del centrosinistra nel mondo cattolico, ed esercita anche una notevole influenza sulla politica. Venne fondata a Roma da Andrea Riccardi nel 1968, risentendo del clima di contestazione giovanile di quel periodo nonché delle istanze di rinnovamento della Chiesa emerse durante il Concilio Vaticano II, e si è da sempre impegnata nel sostegno alle persone più fragili ed emarginate, prima in Italia e poi un po’ in tutto il mondo.
Negli anni Zuppi si è guadagnato una grande autorevolezza all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, già durante il pontificato di Benedetto XVI, durante il quale fu ordinato vescovo. Fu però con l’elezione di Francesco che il suo ruolo divenne più centrale: nel 2015 venne nominato arcivescovo di Bologna e nel 2019 diventò cardinale. Insomma, Zuppi divenne un po’ l’esempio più evidente del tentativo di papa Francesco di dare un nuovo orientamento all’assemblea dei vescovi italiani, che in parte era ancora condizionata dall’eredità conservatrice di Ruini. Nel maggio del 2022, Francesco lo nominò presidente della CEI.
Da allora i suoi rapporti con il governo di Giorgia Meloni, entrato in carica pochi mesi dopo di lui, sono stati altalenanti. Se è vero che Zuppi non ha mai nascosto le sue idee progressiste, per nulla in sintonia con l’approccio della destra nazionalista rappresentata da Fratelli d’Italia, è anche vero che in questi due anni i rapporti tra la presidente del Consiglio e il Vaticano non sono stati poi così negativi. Tra le altre cose, il papa ha accettato di partecipare accanto a Meloni agli Stati generali della natalità, nel maggio del 2023, relazionandosi abbastanza amichevolmente con lei; e a metà giugno, lui interverrà in maniera del tutto irrituale al G7, la riunione dei capi di Stato e di governo delle sette democrazie più influenti al mondo che si riunirà in Puglia sotto la presidenza italiana. Francesco è stato invitato da Meloni a condividere idee in particolare sugli sviluppi dell’intelligenza artificiale.
Allo stesso tempo le prese di posizione della CEI nettamente contrarie alle politiche del governo sono state parecchie. Nel novembre scorso, durante un suo intervento pubblico, Zuppi criticò l’accordo fatto da Meloni col premier albanese Edi Rama per la realizzazione di tre strutture di accoglienza per i migranti in Albania, ma gestite dall’Italia. «Di per sé è un’ammissione di non essere in grado. Non si capisce perché non venga sistemata meglio l’accoglienza qui», disse Zuppi.
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Nei giorni scorsi, poi, le critiche di Zuppi sono state ancora più dure, e hanno riguardato le due riforme più importanti a cui il governo sta lavorando. Da un lato la riforma costituzionale che introduce il “premierato”, ancora in fase di discussione al Senato nel primo dei quattro passaggi parlamentari necessari per la sua eventuale approvazione. Durante la conferenza stampa per la chiusura dell’Assemblea generale dei vescovi, a Roma, giovedì 23 maggio Zuppi ha risposto ad alcune domande sul premierato dicendo che la riforma riguarda gli equilibri istituzionali dello Stato e che questi «vanno sempre toccati tutti con molta attenzione», aggiungendo poi che l’argomento «va affrontato con lo spirito della Costituzione, come qualcosa di non contingente».
Ma è sull’altro progetto di legge, quello sull’autonomia differenziata che la Camera potrebbe approvare in via definitiva a giugno, che la CEI ha preso una posizione più apertamente critica. In un comunicato ufficiale pubblicato venerdì, l’assemblea dei vescovi ha scritto che il rischio che la riforma indebolisca il «vincolo di solidarietà tra le diverse regioni […] non può essere sottovalutato, in particolare alla luce delle disuguaglianze già esistenti, specialmente nel campo della tutela della salute». La CEI ha insomma ribadito le tesi sostenute dai commentatori più critici nei confronti dell’autonomia, e peraltro già espresse dai più importanti vescovi delle città del Sud Italia nei mesi passati. Roberto Calderoli, il ministro leghista per gli Affari regionali e principale promotore della riforma, ha risposto dicendo che la posizione dei vescovi è dettata da un «pregiudizio politico».
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