“C’è uno straniero alto e affascinante. Forse dell’Inghilterra o dell’Irlanda; per le sue doti di rabdomante è il vero pezzo forte di una banda. Lui che dell’archeologia fu spasimante”.
Fa freddo nello spoglio bar in cui la scena prende vita. Le comparse si stringono fra loro mentre il cielo plumbeo fuori dalle finestre senza vetri sembra quasi spingerli a prestare attenzione alle parole pronunciate; i loro sono gli sguardi affamati di chi spera di trovare un segno, un consiglio o un indizio. Il mare di sottofondo non riesce a tradire la promessa di una bella vista: alte gru si stagliano in lontananza come a fornire il più grande dei palchi, silenziose e vuote, pronte a trasformarsi in mostri marini fatti di ferro e vernice.
Non è una semplice canzone quella che sta prendendo forma, è una spiegazione degna del coro della più classica delle tragedie greche in cui i personaggi possono allontanarsi per un istante dai loro ruoli e semplicemente osservare il dipanarsi della vicenda.
È alla voce timida di Joh O Connor, inglese d’origine ma ormai italiano d’adozione, che viene affidato il compito di portare avanti quel grande spettacolo circense che è La Chimera di Alice Rohrwacher.
La premessa sembra lineare: Arthur, un giovane archeologo inglese, uscito da poco di prigione, torna a trafugare reperti etruschi insieme alla sua banda. Quasi un Indiana Jones dell’alto Lazio, si potrebbe dire.
Ma la chimera è un essere molteplice, un “mostro di origine divina” come lo descrive Omero nell’Iliade, dedito alla trasformazione e iniziato ai Misteri. Non è una figura scelta a caso: legata anche all’immaginario etrusco diviene a tutti gli effetti la rappresentazione della capacità di Arthur di saper trovare con facilità gli oggetti nascosti o perduti. Lui è un rabdomante più che un archeologo.
Vi è un lutto nascosto che serpeggia all’interno del film, presentato sotto forma di sprazzi, brevi visioni che dipingono la nozione di dolore che per l’archeologo sembra non voler smettere mai; egli è perennemente in fuga, agitato da pensieri che lo rendono macchiato dentro e fuori, fluttuante nella sua spasmodica ricerca di un modo per ricongiungersi con l’unica persona che lo teneva ancorato a terra. Il mondo della Chimera è sporco di terra e di bronzo, umido come le grotte in cui si muove durante la sua ricerca, desideroso di nascondersi da quel sole che è conscio illuminerebbe solo ciò da cui stanno scappando.
Alice Rohrwacher rappresenta la solitudine di un uomo innamorato di un passato che non può raggiungere e investito di un potere che non può usare per ciò che desidera veramente; Arthur è un recluso, un solitario la cui vita è appesa a un filo, insicuro sulla possibilità di andare avanti e in che modo veramente procedere.
La potenza del film però si avverte quando il messaggio assume un respiro più ampio; durante lo scorso festival di Cannes, la regista, intervistata da Marya E. Gates, ha affermato di aver usato La Chimera per descrivere la sua personale idea di capitalismo: “è’ come un insieme di cani che ringhiano e litigano fra loro, dove tutti sono uguali. Non vi è nemmeno più la divisione fra acquirente e venditore. Sono tutti lì per gridare e ringhiare l’uno contro l’altro intorno ad un osso. Arthur toglie quell’osso dal mondo del commercio e da quello dei vivi e lo getta in acqua”.
Vi è un affetto particolare nel modo in cui sono presentate le tombe: attento e carico d’amore per un luogo che, in un film dedicato ai tombaroli, sembra quasi svolgere il ruolo della vittima. Eppure anche nel presentare la compagine di personaggi che circondano Arthur non vi è uno sguardo critico quanto chirurgico nel dire “questo è il prodotto di questa terra, questo è tutto quello che un insieme di personaggi vagabondi riescono a fare”; loro non hanno paura di profanare luoghi sacri ma piuttosto temono quello che davvero li aspetta là fuori. Sono questi i cani piccoli che cercano di abbagliare forte quanto quelli grandi; Arthur è l’unico elemento esterno di una storia in cui si conosco già molto bene i contorni.
La Chimera è l’ultimo capitolo di una trilogia, formata da Le Meravigli (2014) e e Lazzaro Felice (2018), dedicata ad investigare il rapporto con il passato. La Rohrwacher prende in prestito simboli e luoghi cari all’immaginario italiano; degno di nota è il richiamo al treno di stampo felliniano come luogo di passaggio dove i personaggi si scindono e riassumono nuove forme prima della stazione successiva o all’influenza realistica simile a Roberto Rossellini, la cui figlia, Isabella, svolge anche un ruolo all’interno della pellicola.
Snobbato agli ultimi David di Donatello, La Chimera continua però a seguire un proprio percorso di trasformazione, arrivando anche oltre oceano dove si parla di una “rinascita del cinema italiano”. Nel parlare di un film simile mentre l’estate è alle porte, non si può non pensare a Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, eletto a gran voce dal popolo di TikTok come massimo esponente del cinema-italiano-core, inspo-vita-lenta, come-vorremmo-tutti-vivere-nell’-Italia-rurale. In quel caso, il vero messaggio dell’opera forse ha subito una sub-veicolazione che lo ha portato ad essere idealizzato più del previsto, con La Chimera si rischia di sfiorare un caso simile.
Il grande attore c’è, la campagna italiana pure ma in questo caso la presenza di fantasmi che albergano dietro ogni molo e donne simili a gazze ladre potrebbe far desistere i più superficiali degli spettatori. Allo stesso tempo La Chimera riesce a rivelarsi un film per tutti, nella semplicità di un simbolismo che sembra solo attendere qualcuno pronto ad accompagnarci al suo interno.
Articolo a cura di Giulia Colasante
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di Giulia Colasante
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2024-06-03 07:13:32 ,