Nel tentativo di fare un passo avanti verso la ripresa dei negoziati, dopo un’altra giornata interlocutoria in Israele, Washington ha deciso di portare al Consiglio di sicurezza dell’Onu il piano di tregua presentato da Joe Biden il 31 maggio. Nel frattempo, in Israele, Benjamin Netanyahu è paralizzato nella scelta dall’opposizione dell’estrema destra che lo sostiene al governo. In un’intervista al settimanale Time, realizzata il 28 maggio ma pubblicata oggi, il presidente Usa (che non aveva ancora annunciato la bozza di accordo per il cessate il fuoco a Gaza) ha affermato che “ci sono tutte le ragioni per trarre questa conclusione” rispondendo al giornalista che gli chiedeva se credesse che il premier israeliano Benjamin Netanyahu stesse prolungando la guerra per motivi politici. Nella conversazione Biden ha inoltre ribadito che non c’è certezza su possibili crimini di guerra a Gaza da parte delle forze israeliane.
“Un terzo degli ostaggi è deceduto” – Il governo di Israele ritiene che più di un terzo degli ostaggi a Gaza siano morti. Secondo le stime di Tel Aviv, dei 120 prigionieri nella Striscia 43 sono stati dichiarati morti sulla base di varie fonti di informazione. Hamas ha affermato che diversi prigionieri sono stati uccisi negli attacchi aerei israeliani o sono morti a causa delle ferite non curate per l’assenza di assistenza sanitaria a Gaza. Delle circa 250 persone catturate il 7 ottobre, una trentina sono state liberate durante la tregua di novembre, mentre alcuni corpi sono stati recuperati dalle truppe israeliane.
Il piano di Biden al Consiglio di sicurezza Onu “entro la settimana” – Gli Stati Uniti hanno presentato martedì una risoluzione in sostegno della proposta del presidente, che il giorno prima aveva già ricevuto l’endorsment del G7. “Numerosi leader e governi, anche della regione, hanno appoggiato il piano e chiediamo al Consiglio di sicurezza di unirsi a loro nel chiedere l’attuazione di questo accordo senza rinvii e senza ulteriori condizioni”, ha detto l’ambasciatrice americana al Palazzo di Vetro, Linda Thomas-Greenfield. Il testo, che circola in bozza, dovrebbe essere discusso e votato entro la settimana.
La proposta di risoluzione afferma che la rapida attuazione dell’accordo consentirà un cessate il fuoco, il ritiro dell’esercito israeliano dalle “aree popolate della Striscia di Gaza”, il rilascio di ostaggi, un aumento della portata degli aiuti umanitari, il ripristino dei servizi di base alla gente e il ritorno dei palestinesi nel nord di Gaza. Nell’ultima parte del testo si afferma l’impegno “a favore della visione di due Stati democratici, Israele e Palestina”, nonostante gli Usa abbiano finora messo il veto sul riconoscimento dello Stato palestinese.
L’appoggio dei membri del Consiglio è determinante perché tra i membri non permanenti per il 2024 e 2025 c’è l’Algeria, Paese storicamente molto vicino alla causa palestinese e promotore di diverse iniziative in sede Onu per chiedere il cessate il fuoco permanente a Gaza e il riconoscimento dello Stato di Palestina.
La rappresentante di Washington alle Nazioni Unite lo ha detto tra le righe: “I membri del Consiglio hanno sempre chiesto i passi delineati in questo accordo: riportare gli ostaggi a casa, garantire un cessate il fuoco completo, consentire l’aumento di assistenza umanitaria a Gaza e la ristrutturazione dei servizi essenziali. Ora dovrebbero lasciarsi sfuggire questa opportunità”.
Riunione del gabinetto di guerra israeliano – Lunedì il partito religioso Shas, che sostiene il governo di Netanyahu, si è schierato a favore dell’intesa sulla roadmap che riporti a casa gli ostaggi israeliani. “Sosteniamo la proposta e rafforziamo il premier e il Gabinetto di Guerra affinché resistano a tutte le pressioni, portino l’accordo a una conclusione e salvino la vita di molti dei i nostri fratelli e sorelle che sono nella difficoltà e in cattività”. Ma sull’ipotesi di negoziati pesa il veto messo dai principali alleati del Likud, il partito del premier, che siedono all’estrema destra: le formazioni guidate dagli ultra-ortodossi Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.
Questa sera è prevista una nuova riunione del gabinetto di guerra israeliano, ufficialmente per discutere gli ultimi sviluppi militari nel nord del Paese, dove le forze paramilitari sciite di Hezbollah hanno intensificato gli attacchi.
Netanyahu non parlerà al Congresso Usa il 13 giugno – L’ufficio di gabinetto di Benjamin Netanyahu ha smentito stamattina la presenza del primo ministro israeliano il 13 giugno a Washington per tenere un discorso al Congresso americano, come riportato ieri dai media statunitensi Punchbowl News e Politico. La scelta temporale era stata considerata significativa perché proprio in quei giorni Joe Biden sarà assente da Washington per partecipare al G7 in Puglia.
La data non potrà essere il 13 giugno perché interferisce con le festività ebraiche, ha riferito l’ufficio di Netanyahu ha riferito ai media israeliani, aggiungendo che il calendario non è stato ancora definito.
“Israele potrebbe attaccare Beirut a metà giugno” – Dopo 9 ore di lavoro notturno, l’esercito e i pompieri israeliani sono riusciti a mettere sotto controllo gran parte dei vasti incendi divampati da ieri nel nord del Paese a causa dei razzi e dei droni lanciati dagli Hezbollah dal Libano. Undici persone, tra cui sei riservisti dell’Idf, sono rimasti intossicati dal fumo degli incendi. Si stima che almeno 1000 acri di terreno siano stati coinvolti dall’incendio. Le sirene di allarme hanno ripreso a suonare martedì mattina in tutto il nord di Israele per via di altri attacchi droni dal Libano.
Secondo il quotidiano libanese Al Akhbar, organo della formazione sciita, Israele potrebbe attaccare Beirut a metà giugno. Il governo avrebbe ricevuto l’informazione attraverso i canali diplomatici, in primo luogo dal Regno Unito.
Ultradestra all’attacco – Intanto il ministro di ultradestra titolare della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir è tornato a infiammare gli animi con una dichiarazione bellicosa alla vigilia della Marcia delle bandiere, la manifestazione che celebra la vittoria della guerra dei 6 giorni del 1967 e l’unificazione di Gerusalemme. Il governo di Tel Aviv ha permesso alla sfilata di arrivare ai limiti del quartiere arabo, aumentando dunque il rischio di provocazioni con i palestinesi. “Il Monte del Tempio e Gerusalemme sono nostri. Dobbiamo colpirli dove è più importante per loro – ha detto il leader Ben-Gvir alla radio militare israeliana –. Marceremo verso la Porta di Damasco e andremo al Monte del Tempio nonostante loro”.
Parlando di Gaza, Ben-Gvir ha detto: “Ci sono cose che non abbiamo ancora fatto, come fermare il gas, dire basta agli aiuti umanitari: facciamolo per un mese o due, poi vedremo”. E parlando del Libano: “Se mi lasciassero essere responsabile degli aerei, dei razzi, di tutto ciò che sta accadendo nel nord, Hezbollah imparerebbe qual è la risposta di Israele”.
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di F. Q.
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2024-06-04 13:14:18 ,