Yorgos Lanthimos stupisce il pubblico con un racconto che ruota attorno al paradosso e tre episodi paralleli che si intersecano, immobili nel loro immortalare l’assurdità dell’esistenza.
Dopo il successo mainstream di Povere creature!, il regista greco fa marcia indietro, rimaneggiando con estrema maestria il suo stile respingente e dissacratorio. Kinds of kindness si configura come un ritorno alle origini, un racconto antologico in cui Lanthimos ritrova i temi che lo hanno portato nell’Olimpo del cinema indipendente.
Un’opera disseminata di significati nascosti e caratterizzata da un’irriducibilità dell’immagine sul significato.
Il regista greco ha rimescolato storie vecchie e nuove, realizzando un film a episodi che vede nuovamente protagonisti Willem Dafoe, Emma Stone e Margaret Qualley. Al cast si sono aggiunti poi Jesse Plemons, premiato a Cannes per la sua triplice interpretazione, e Hong Chau, che abbiamo già incontrato in The menu e The whale.
Gli attori interpretano personaggi diversi in ogni storia, apparentemente sconnessa l’una dall’altra, ma un personaggio senza nome, dalle iniziali R.M.F., fa da silenzioso elemento guida.
La gentilezza come atto disumano
Kinds of kindness, come i precedenti lavori cinematografici del regista, esplora le più estreme modalità in cui le persone vivono seguendo regole specifiche, che siano imposte dalla società o da altri individui.
Al centro della narrazione, fil rouge del film, vi è sempre la natura dei rapporti di forza che definiscono il potere, le sue storture e i suoi limiti.
La gentilezza o cortesia, nella sua forma più subdola, ritorna come caratteristica principale che affligge tutti i personaggi, come già accadeva in Alps. Film in cui un gruppo di persone impersonifica, sotto compenso, sconosciuti appena defunti per aiutare gli amici e i parenti a lenire il dolore dell’elaborazione del lutto.
Un simile schema narrativo lo troviamo anche in Kinetta, qui la narrazione si dipana a partire da un intento comune: un poliziotto, un fotografo e una cameriera simulano la scena di un delitto per tentare di risolverlo.
I protagonisti delle tre storie rimangono, però, intrappolati nella spirale di subordinazione dei loro stessi gesti.
Quell’istinto di agire per l’altro, in uno slancio di cortesia che si trasforma poi in dipendenza da un lato e sopraffazione dall’altro.
Il sopruso è, per Lanthimos, un rito sociale con regole precise e crudeli. Il linguaggio è un mezzo di manipolazione, mentre la violenza è sempre psicologica prima e fisica poi, nel suo fine più estremo, la morte.
Assistiamo a una dinamica perversa di perdita e ritrovamento di senso: l’amore e la sua mancanza, la fede e l’assenza della fede, la libertà e la sottomissione. Così facendo si articola una narrazione scandita da pieni e vuoti, alla costante ricerca di un equilibrio morale che sembra impossibile da raggiungere.
Si avverte un costante conflitto tra il bisogno di essere amati, accettati, di sentirsi parte di qualcosa e il desiderio di essere liberi, soli, slegati dalle dinamiche di potere.
Ma nonostante ciò, la sopraffazione rimane l’unico elemento di conforto per i personaggi ideati dall’autore.
L’assurdo
Kinds of kindness ha un’influenza beckettiana, del teatro dell’assurdo, poiché le domande di senso trovano solo risposte grottesche e frustranti.
Questa caratteristica la rintracciamo nelle inquadrature, nelle scene sconnesse dalla narrazione e nella recitazione dei personaggi. Ed è la stessa che ci svela, con atti di paradossale delirio, l’insensatezza della nostra ricerca di un perché o di un senso al film stesso, in qualità di spettatori.
Ma ci sono dei temi che si tramandano e alcuni di questi si evolvono col passare del tempo, a seconda delle esigenze del film.
Scopriamo un magistrale Jesse Plemons che continua a muoversi nello spazio indefinito dell’assurdità.
Nel primo episodio, lo troviamo immerso in una relazione di subalternità con Willem Dafoe che rimanda all’ancestrale rapporto tra Dio e l’essere umano: il cieco obbedire per il bisogno di credere nella superiorità di qualcuno o qualcosa.
Al contempo, sperimentando lo smarrimento, quando si smette di obbedire davanti alla richiesta impossibile.
Si prosegue con un sorprendente capovolgimento dei ruoli, maschile e femminile. L’uomo che inizialmente si mostra sofferente per l’assenza della sua compagna scomparsa, si rivela invece un aguzzino che legittima la sua violenza attraverso una narrazione di fragilità.
Il grottesco rivela, ancora una volta, la paura e la subordinazione relazionale, usando la metafora del cibo per rappresentare il maltrattamento domestico.
Da ultimo, il racconto più trascendente di tutti, in cui l’essere umano tenta di realizzare ciò che pensa, come ad esempio la possibilità di far risorgere i morti e di purificarsi. Anche se diventa difficile capire se sia più una libertà o una costrizione credere in questi rituali.
Qui l’assurdo si compie attraverso l’atto più estremo: una persona che compie miracoli esiste, ma deve morire perché l’assurdo possa realizzarsi, poiché la vita non può risolversi davvero.
Lanthimos ci regala un’opera d’arte intellettuale, che esplora le potenzialità del cinema nel suo essere terra di mezzo tra finzione e realtà, un luogo ideale dove l’assurdo può manifestarsi in modo autentico.
Chi è Lanthimos
Dal 2009 in poi, il nuovo cinema greco si è caratterizzato per un piccolo gruppo di autori che sono riusciti a dare forma a sentimenti inquietanti e una nuova realtà, alienante e alienata.
La solitudine diventa una dimensione centrale, da osservare e analizzare, la sopraffazione è la nuova regola dominante in un mondo che non ha più regole conosciute.
La scenografia è caratterizzata da allestimenti austeri e disadorni, con slanci di lugubre violenza, sempre estremamente crudele e sadica. Attenberg di Athina Tsangari, Miss Violence di Alexandros Avranas, Miserere di Babis Makridis sono film distaccati, minimali e silenziosi, con protagonisti spesso senza nome, ridotti a semplici ruoli.
In un momento di profonda crisi, con produzioni a zero budget, Lanthimos è stato la figura più in vista di questo nuovo modo di fare film, pur con delle influenze visibili nel cinema decadente di Haneke, capace di mettere a disagio lo spettatore.
Con Dogtooth, presentato nella sezione Un certain regard di Cannes, nel 2009, e premiato con il titolo di miglior film, l’autore greco compie un lavoro di distopia cinematografica che annulla ogni sentimento, a favore di un oppressione egoistica. Il tema del potere e della repressione ha come risultato uno sviluppo di istinti feroci e malsani.
Lanthimos, il più talentoso, si è distinto nella rovina industriale e nell’angoscia urbanistica, modellando un dissenso culturale che ha riacceso l’attenzione della critica sul cinema greco, dopo anni di disinteresse.
La Grecia è tornata così a mostrarsi come una fucina di cultura cinematografica, che affronta l’abisso con un misto di desolazione e apatia.
Perché il cinema che sfida lo spettatore è un cinema che dimostra di essere ancora vivo!
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di Veronica Cirigliano
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2024-07-08 13:23:34 ,