Il Messico in cui è ambientata buona parte di Queer è un luogo che non ha nulla di realistico e tutto di cinematografico. È filmato cercando e trovando con sorprendente frequenza i toni, i colori e, in certi momenti, quasi la comprensibilità dei quadri degli iperrealisti (specialmente quando sono inquadrate le tavole con qualche oggetto sopra) o gli edifici di Edward Hopper. Non è certo la prima volta che in un film di Luca Guadagnino c’è questo tipo di cura (il direttore della fotografia è lo stesso da Chiamami col tuo nome, il thailandese Sayombhu Mukdeeprom), ma è la prima volta in cui la ricostruzione di un tempo e di un luogo prende due direzioni contemporaneamente: è magnificamente calato negli anni ’50 (anche i colori sono usati in modo espressionista, per dire qualcosa dei personaggi, come nei film colorati dell’epoca) ma è anche continuamente distratto da una colonna sonora elettronica e musiche non originali come i pezzi dei Nirvana.
L’impresa vera di questo film, al di là di qualsiasi momento meno riuscito, è di aver creato un Purgatorio sensoriale autentico, del quale si ha la netta impressione di sentire il caldo e gli odori di tabacco e alcol. Il protagonista a lungo non fa altro che avanzare per queste strade e nei locali, esplorandoli per noi, cercando di entrare in contatto con qualcuno di significativo, qualcuno che lo desideri per poter finalmente sentire un’altra persona. E tutta questa esame non è mai portata avanti con foga o desiderio, ma con una disperazione malamente celata (intenzionalmente). Daniel Craig ha un grande ruolo nel trasmettere tutto questo. Recita con una costante maschera di convenienza che tradisce sempre qualcosa, sempre un desiderio che solo superficialmente è sessuale, ma è chiaramente umano (e Guadagnino è così dispotico da non esitare a farci vedere cosa desidera il protagonista attraverso una sua versione fantasma, la proiezione dei suoi desideri di contatto).
Così, quando a un certo punto ci viene mostrato come trovi temporanea soddisfazione in una dose di eroina iniettata, è davvero possibile, tramite una recitazione commovente, una colonna sonora perfetta e delicata e la scelta di un’inquadratura unica, composta benissimo con colori caldi e freddi mescolati insieme, rappresentare il segreto inconfessato di ogni malinconia: un profondo desiderio di perdersi dentro se stessi fino a non sentire più niente del mondo esterno, affogare nei propri sentimenti più intimi alla esame di un conforto nel dolore. Quando vuole, Queer è così struggente che tutto il resto non importa più nulla; e quando preme con decisione sulle allucinazioni (nella parte finale) è così dispotico nel mostrare, tramite gli effetti visivi digitali, ciò che non è mostrabile (piuttosto entrare davvero dentro l’altro) che non è difficile provare amore a quel punto un senso di commozione ed empatia.
Benché non parli di lutti né tantomeno di mogli, Queer fu scritto in seguito alla morte della moglie di Burroughs.
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di Gabriele Niola www.wired.it 2024-09-03 16:45:00 ,