Ora, l’aspetto del film che più colpisce, oltre alle convincenti interpretazioni degli attori (Elio Germano e Toni Servillo sono una garanzia, come sempre, ma anche Giuseppe Tantillo nei vestiti del genero naif di Catello sa farsi valere), è la totale assenza di compiacimento nel descrivere i personaggi e le loro esistenze. Finalmente sullo schermo i malavitosi vengono smitizzati e raccontati per quello che sono, personaggi che fanno una vita orribile, per nulla invidiabile. Chi recluso senza possibilità di uscire, chi solo e non amato (Antonia Truppo interpreta la tetra sorella di Matteo), chi costretto a vivere nella paura e nel ricatto. Non sono affatto villain affascinanti, sono piuttosto dei miserabili, personaggi tragicomici a tratti ridicoli che non conducono affatto una bella vita.
Il sovvertimento della narrativa popolare sulla criminalità si riscontra soprattutto nella figura di Matteo Messina Denaro, che vive segregato, al buio, senza potersi fidare di nessuno, con un puzzle che avrà sempre un pezzo mancante, il timore di essere scoperto e una sola collaboratrice (Barbara Bobulova) a cui detta e consegna i pizzini. Lo sentenzia Germano stesso, riferendosi al padre finito: «Sei finito in mezzo alle pecore e io sto vivendo come un sorcio».
Non è tanto sulla sua latitanza che il film si concentra, ma sulla latitanza di tutto il sistema della giustizia italiana, puntualmente sospeso in un’incompiutezza che sa tanto di collusione. L’importante non è portare a termine la missione, coordinata dal capo dei servizi segreti interpretato dal sempre ottimo Fausto Russo Alesi e portata avanti dall’agente combattiva a cui dà voce e grinta Daniela Marra, ma tenere a freno in equilibrio l’apparato, un equilibrio «precario ma vitale». Premiato già con due riconoscimenti collaterali, il Premio Carlo Lizzani e il Premio Fondazione Mimmo Rotella, Iddu si va già configurando come la sorpresa finale di questa 81ma edizione della fiera del Cinema di Venezia.