La prima guerra mondiale sta per terminare. Siamo nel 1918, e gli ultimi mesi di guerra si avviano verso un vittorioso epilogo, nel quale l’Italia ottiene Trento e Trieste e la sua quarta “guerra d’indipendenza”, può dirsi conclusa. Ma il prezzo da pagare è alto, molto alto. Lo racconta Campo di Battaglia, ambientato proprio in Friuli Venezia Giulia, in un ospedale civile di un imprecisata cittadina.
A pagare i sogni di gloria, non sono mai i grandi uomini di potere, né i letterati o gli economisti, che sentenziano frasi ardite dai loro salotti in un sordo e opaco silenzio. Sono i giovani, gli sbandati, la gente comune che vive vite comuni. Quel popolo ancora estremamente legato ad un regionalismo figlio di un’Italia giovane e di un risorgimento ancora poco collaudato. Giovanissimi vengono mandati al fronte, alcuni persino diciassettenni, tra coloro che passeranno alla storia come i “ragazzi del ’99”. Memorie di ragazzi che permisero, dopo la sconfitta di Caporetto nel 1917, la decisiva vittoria dell’Italia a Vittorio Veneto.
Alcuni di loro sono sopravvissuti e Proseguono a essere necessario il tricolore, prima che la controffensiva sul Piave li ripaghi dei loro sforzi. Loro però, ancora non lo sanno. Pensano che la guerra non finirà mai. Sono stanchi, dilaniati, malati e mutilati. Hanno fatto abbastanza, vogliono tornare a casa dalla famiglia e gli affetti. Bramano la vita che si meritano e a cui sono stati strappati. Per farlo sono disposti a tutto, persino auto infliggersi mutilazioni, per non tornare in quelle sanguigne e fetide trincee.
Nell’ospedale friulano si gioca l’intera partita e questo agghiacciante dolore arriva dritto nel petto, raccontato da una prospettiva civile, lontana dal fronte e le bombe. Eppure in Campo di Battaglia le bombe si sentono, nitide. Attraverso le emozioni, le parole e l’aria che si respira tra le mura che ospitano i malati. Le giovani promesse sono bravissime nel parlare in dialetto, nella sua forma più arcaica di inizio ‘900. Si percepisce una studio ben precisa nel curare il periodo storico, non solo nelle parole, ma anche nelle immagini. La scenografia e la fotografia, seppur con qualche eccessivo tono naïf, regalano nella sua sintesi, un dipinto coerente e dignitoso.
A coordinare le operazioni in Campo di battaglia due grandi medici amici fin dai tempi dell’università, ma con visioni e ideologie diametralmente opposte. Giulio (Gabriel Montesi) disprezza i “traditori” e i “vigliacchi”, coloro i quali scappano dai doveri e le necessità della patria. Sono persone prive di etica, e come tali vanno puniti. Non importa in che condizioni arrivino, non sono mai sufficientemente gravi per non tornare in trincea con un fucile in mano. Stefano (Alessandro Borghi), è un medico che vive di rimpianti. Avrebbe voluto fare il biologo e crede che la medicina debba salvare tutti, indistintamente. Si rifiuta di accettare le regole e vuole salvare la vita di quei ragazzi, anche a costo di procurargli ulteriori ferite, nel cuore della notte. Sarà soprannominato la “mano santa” e diventerà un faro di speranza per l’intero istituto ospedaliero.
A fare da bilanciamento tra i due medici l’infermiera Anna (Federica Rossellini), fallito medico a cui non è stata concessa la lode perché colf. Lei si trova nel mezzo, metaforicamente in un altro “campo di battaglia”, nella scomoda situazione di non potersi (o volersi) schierare. Rappresenta la dualità dell’essere umano, nudo di fronte ad un’artiglieria etica e politica. Da una parte la pietas caritatevole, dall’altra il rigido imperturbabilità di chi non deve scoprire la patria.
Il lavoro di Gianni Amelio, in corsa al Festival del cinema di Venezia, è ben fatto. La narrazione è minimalista ma al contempo calda, passionale e drammatica. Riesce con pochi elementi a descrivere la crudezza della guerra, senza entrare mai nel giudizio di un contesto in cui tutti si ritrovano con le mani legate e sono trainati dai propri ideali.
In Campo di battaglia tutti gli attori si muovono all’interno di un reticolato ben studiato, in cui attraverso micro scambi, cambiano in continuazione le sorti degli avvenimenti. La narrazione tiene sempre sul filo del rasoio ed è divisa in due parti. La prima parte dove il nemico da combattere è la guerra. Lo si conosce, quasi fosse un amico fidato. I soldati hanno sempre le stesse ferite, vengono dagli stessi posti e gli ordini impartiti sono ormai fissi e ben eseguiti dagli ufficiali di alto rango. La seconda parte, apre le porte all’epidemia di Spagnola. Un nemico sconosciuto che inizia a falciare non solo i soldati al fronte, ma gli stessi civili, i quali non trovano posto negli ospedali, riservati ai soli militari.
Questo avversario è più subdolo e cattivo. Riporta alla mente la recente pandemia Covid in cui tutto il mondo è dovuto correre ai ripari negli ultimi anni. L’influenza spagnola arrivò a infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo e 600.000 furono i morti in Italia. Nessuna ideologia può questa volta contrastare un nemico di tale portata. E neanche nessun medico.
Un’ influenza che andrà a scardinare le convinzioni di tutti gli attori in gioco e che porrà le condizioni di un nuovo inizio, forgiato col sangue di migliaia di innocenti. Questo il più grande “campo di battaglia” che Gianni Amelio ha portato nelle nostre sale. Una tragedia interiore, più sanguinosa e brutale di qualsiasi altro scontro in campo aperto.
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di Enrico Zicari
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2024-09-18 15:41:09 ,