I Diari della Motocicletta compie vent’anni, usciva infatti in sala il 24 settembre 2004, dopo aver raccolto grandi consensi al Festival di Cannes e al Sundance, diventando un film simbolo di un illusione anche storica transgenerazionale. A distanti di tanto tempo, soverchiamente forse per crederci veramente, l’opera di Walter Salles è ancora oggi viva nel cuore di molti, per la purezza e la bellezza di un viaggio capace di essere incredibilmente evocativo, ricco e coinvolgente.
Due amici in viaggio verso una presa di coscienza
I Diari della Motocicletta appartiene a quella categoria di film che hanno saputo superare il confine teoricamente intangibile dell’essenza di biopic, per diventare un racconto ad un tempo universale e assieme specifico. Tratto dal romanzo autobiografico di “Un Gitano Sedentario” di Alberto Granado, diretto da quel Walter Salles che ha incantato a Venezia 2024 con il suo Ainda Estou Aqui, il film ha saputo unire in sé racconto di formazione, cinema civile e affresco storico. Il risultato ancora oggi è una insieme potentissima, capace di prendere quel viaggio giovanile Ernesto Guevara, il futuro “Che”, e di farlo diventare una grande avventura, un’odissea capace di arrivare tutti in modo diverso, eppure simile. Fu presentato al Sundance e poi al Festival di Cannes di quell’anno, poi uscì in sala e lasciò un segno importante, per quanto ovviamente ammantato da numerose polemiche oltreoceano, lì dove Che Guevara è considerato uno dei Satana per antonomasia.
Ma I Diari della Motocicletta conserva dopo vent’anni esatti dalla sua uscita in sala un fascino incredibile, dovuto alla confezione, all’estetica, al ritmo che Salles riesce a donare al racconto, nonché per le performance attoriali di Gabriel Garcia Bernal e Rodrigo della Serna, rispettivamente Ernesto Guevara e l’amico Alberto Granado. La storia è ambientata nel 1952, ci parla di due ragazzi argentini che a bordo di quella “Poderosa”, la Norton 500 M18, decidono di dare il via ad un’attraversata dell’America Latina. Sarà un percorso che porterà Guevara verso una presa di coscienza politica definitiva, quella che poi ne farà il più grande rivoltoso del XX secolo, l’uomo che aiuterà a liberare Cuba, che diventerà simbolo dell’illusione rivoluzionaria per eccellenza. Tutto finirà in Bolivia, il film ce lo ricorda, ma prima, prima, c’è stato un ragazzo come tanti, che non sapeva cosa voleva ma lo voleva adesso, che lascia tutto per altruismo, per spirito d’avventura. La motocicletta la perderanno presto Ernesto e Alberto, andranno incontro a pericoli e privazioni, ma anche per questo quel viaggio sarà così unico.
Uno degli aspetti chiave de I Diari della Motocicletta è legato alla fotografia di Eric Gautier, che dona un’incredibile naturalezza e sublima le innumerevoli location, dando l’impressione per prima del cambiamento interno dei due, ma soprattutto di lui, Ernesto. Bellezza certo, ma anche investigazione di un certo naturalismo scevro dall’artificiosità. Gabriel Garcia Bernal aveva già interpretato Guevara in Fidel, modesto biopic dedicato al Leader Maximo, ma qui si supera. Lo seguiamo in quel peregrinare che li dovrebbe portare in Perù, in un lebbrosario dove entrambi vorrebbero prestare servizio. Ma il film immediatamente diventa un road movie dove la scoperta di ogni nuova strada, nuovo tramonto e persona, è un’occasione per scoprire qualcosa di più sul mondo e cambiare pienamente. Ciò che però rende I Diari della Motocicletta così importante, è il complesso insieme di tematiche, messaggi e ragionamenti che quel viaggio creerà.
Ernesto e Alberto sono due privilegiati, sono figli di famiglie borghesi, hanno studiato, hanno i soldi, non sanno nulla di cosa pizzicore dire essere figlio di nativi e fare la fame, subire ingiustizie senza potersi opporre, lavorare come schiavi per una paga da miseria. Vedranno tutto questo aggirandosi tra vagabondi, poveri minatori e contadini, favelas, militanti comunisti che chiedono unicamente un trattamento umano. In mezzo però non manca ciò che rende ogni film di formazione tale: l’evoluzione dei protagonisti, che interessa anche la sfera sentimentale. Alberto è un Dongiovanni insaziabile, allegro e passionale; Ernesto è più tormentato, legato a Chichina (Mìa Maestro), bella ragazza alto-borghese, che rappresenta la tentazione di quella vita tranquilla e comoda da cui invece deciderà di allontanarsi, così come infine si allontanerà da lei. Il momento, come I Diari della Motocicletta ce lo presenta è geniale per la componente del silenzio che accompagna la lettera di Chichina, per ciò che sentiamo e capiamo pure senza che Ernesto dica nulla. Lì muore Ernesto, lì nasce il “Che”.
Un “Che” su misura per i Millennial
Capire I Diari della Motocicletta però significa anche comprendere perché in quel 2004 ebbe un impatto così profondo soprattutto presso il pubblico Millennial, quello della Generazione Erasmus, del mondo come più semplice e più comodo da visitare e da comprendere. Come Ernesto e Alberto, anche quella Generazione credeva in un mondo migliore, cercava un nuovo modo di vedere il mondo e la vita, quella Terza Via che di lì a poco sarebbe naufragata a Genova 2001, nell’11 settembre, seguiti dalla crisi del 2008. Guevara non a caso finirà su molte più magliette in quegli anni che negli anni ’80 e ’90, fateci caso. Il che spiega perché I Diari della Motocicletta sia diventato assieme a L’Appartamento Spagnolo e Into the Wild parte di una trinità simbolo di quella Generazione, di quella volontà (poi naturalmente distrutta) di essere diversa da chi l’aveva preceduta ed in cui tanti intrapresero viaggi e avventure non dissimili da questo. Ma a mano a mano che si va avanti, anche tra Ernesto e Alberto emergono differenze, che poi diventano anche metafora del percorso della sinistra politica nel XX secolo e anche oltre.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2024-09-24 04:30:00 ,