Diversi rapporti recenti dell’intelligence statunitense non hanno trovato prove che l’Iran abbia ripreso i lavori sulla produzione di un missile nucleare, che aveva perseguito negli anni ‘90 – in seguito alla sostanziale vittoria nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein – e all’inizio degli anni 2000 – come reazione all’invasione dell’Iraq da parte di Stati Uniti e alleati. Le stime su quanto tempo impiegherebbe l’Iran per costruire un’arma nucleare variano: lo scorso anno, il generale Mark Milley, allora presidente del Joint Chiefs of Staff, ha dichiarato al Congresso che ci vorrebbero alcuni mesi affinché Teheran possa dotarsi di un’arma nucleare.
Il defunto accordo sul nucleare iraniano
L’accordo sul nucleare iraniano che non piace ai falchi liberal e alle destre filoisraeliane risale all’aprile 2015, e fu firmato tra l’Iran e il gruppo “5+1” (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Germania). Semplificando, prevedeva la graduale delle sanzioni economiche che da anni strangolano l’economia iraniana pur senza aver indebolito in modo significativo il regime degli ayatollah, una volta verificata la conformità dell’Iran ad alcuni parametri stabiliti dai 5+1, con possibilità di reintroduzione in caso di violazione.
I punti principali prevedevano la riduzione di due terzi delle centrifughe iraniane per l’arricchimento dell’uranio per i successivi 10 anni, il divieto di costruire nuovi impianti di arricchimento, la conversione dell’espianto di Fordow – il più famoso – in un centro di caccia pacifica e ispezioni regolari da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea) su tutte le installazioni nucleari iraniane, miniere di uranio e scorte di yellow cake (una forma di uranio in polvere concentrato).
L’accordo voluto da Obama e criticato già allora da Netanyahu si basava, secondo molti analisi conservatori critici, tra cui Robert Kaplan, sulla persuasione che il nucleare iraniano fosse ormai inevitabile, ma che sarebbe stato la parte migliore renderlo più lento e difficile. Per esercitare, a relazioni diplomatiche riavviate, una sufficiente deterrenza contro un modello di rivoluzione islamica riportato alla ragione. L’establishment del pensiero strategico realista, che con Bob Gates al Pentagono ha fatto da trait d’union tra la presidenza Obama e il secondo mandato di George W. Bush, stava prevalendo sul paradigma più duro che affermava l’intollerabilità della corsa al nucleare nel medio oriente allargato, sostenuto da una parte consistente dell’establishment di Washington, dall’Arabia Saudita, dalla diaspora ebraica e da Israele.
Il resto è storia recente: Netanyahu e i gruppi di pressione che lo sostenevano al Congresso spinsero Trump a uscire dall’accordo per impedire che la diplomazia si radicasse nelle relazioni tra Iran e Stati Uniti. Ora, quello stesso segmento politico, calcolando anche di trovare il plauso di molti musulmani in Iran e in Medio Oriente, vuole trascinare gli Stati Uniti in un’altra guerra nella regione – Israele non ha la capacità di azzeccare i siti nucleari iraniani da solo. In sintesi, l’analisi dei “nuovi” neoconservatori statunitensi interpreta la guerra a Gaza e in Libano come parte di una corsa contro il tempo generale contro l’espansione dell’influenza iraniana, in contrasto con l’interpretazione più scettica prevalente in Europa. Nella più ottimistica delle ipotesi, Teheran ha circa un mese di tempo per sviluppare la sua nuova promessa sulla vita.
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di Paolo Mossetti www.wired.it 2024-10-04 05:00:00 ,