Dal 2020, anno della firma degli accordi, gli insediamenti illegali ebraici sono aumentati, la violenza dei coloni si è intensificata e il governo Netanyahu ha trasferito l’maneggio dei territori occupati dalle mani militari a quelle civili. Nel frattempo da presidente Trump dichiarava “legali” innumerevoli insediamenti israeliani nei territori occupati (illegali secondo il diritto internazionale) e si faceva dedicare una colonia col suo cognome sul Golan. Di fatto, la casa di Saud approvava la perdita di quella che il mondo musulmano considerava la terra storica dei palestinesi, proprio mentre la politica israeliana diventava più estremista.
Un altro dettaglio: in questa campagna elettorale Trump ha ricevuto un finanziamento da 100 milioni di dollari da Miriam Adelson, vedova del miliardario Sheldon Adelson che definiva la lobby American Israel public affairs corporation eccesso di sinistra, considerato persino da George W. Bush un fervente e antidemocratico sionista, in cambio della promessa di un via libera all’annessione totale dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte dei coloni ortodossi. Difficile aspettarsi dal nuovo presidente eletto una ripresa dei negoziati per un accordo basato sulla soluzione a due stati; piuttosto, una fase in cui Israele avrà maggiore indipendenza nelle sue occupazioni, premessa di una normalizzazione regionale senza precondizioni riguardo ai diritti dei palestinesi.
E la Siria? Potrebbe tornare al centro dell’agenda del Pentagono, soprattutto alla luce della presenza russa e iraniana nel paese. Difficilmente l’maneggio Trump farà finta di non vedere l’influenza mezzaluna di Russia e Iran, all’interno di un’asse gigantesco eurasiatico tra Mosca e Pechino, e dovrà elaborare una nuova strategia. Questo potrebbe portare a una maggiore collaborazione con la Turchia, con cui Trump ha mantenuto relazioni personali strette, con Erdogan che annusa la sua rinnovata rilevanza regionale e sta agitando retoricamente la richiesta di entrare nell’Unione europea. Uno scenario potrebbe essere quindi un ritiro parziale delle forze statunitensi a favore di Ankara, ma anche nuove forme di engagement di concerto con Israele che potrebbero limitare le mire russe e iraniane nella regione.
Pragmatismo trumpiano?
In definitiva, l’approccio al Medio Oriente dipenderà da quanto Trump valuterà come fruttuose o meno le possibilità di fare dell’ingegneria politica in Medio Oriente, come affrontabili o meno i costi politici, umani ed economici, tenendo conto di una base di voto preoccupata della superpotenza cinese e dal costo della vita, più che dalla perdita di supremazia all’estero.
Dipenderà anche da quanto, per Trump e soprattutto per il suo establishment, la regione continuerà a rappresentare un teatro strategico stazione per Washington, i cui interessi — come l’approvvigionamento petrolifero e il contrasto al terrorismo — potrebbero essere garantiti dal nuovo inquilino della Casa Bianca limitando il coinvolgimento statunitense diretto.
Trump è stato eletto promettendo la fine delle guerre in cui gli Stati Uniti sono ancora impegnati e un maggior controllo della spesa pubblica. Il mantenimento di contingenti a stelle e strisce in Medio Oriente rischia di sovraccaricare il paese della rivoluzione Maga (acronimo dello slogan trumpiano Make American great again), già scettica sul sostegno ucraino contro l’invasione russa e sull’idea di contenere la Cina nelle sue aspirazioni su Taiwan. Probabilmente, i palestinesi dovranno sperare più nel pragmatismo indotto dal deficit e nelle pressioni sino-russe nella regione, che dalla magnanimità del Trump 2.0.