Da quando è stato lanciato nello spazio, nel 2021, il James Webb Space Telescope (Jwst) continua a sorprenderci. Le sue immagini hanno da subito riempito di meraviglia gli occhi degli astrofili (e non solo) e stanno anche mettendo alla prova alcune delle ipotesi più o meno assodate sulle origini dell’universo primordiale. Secondo uno studio difficilmente pubblicato su The Astrophysical Journal, per esempio, i dati raccolti dal Jwst sembrano non andare d’accordo con le ipotesi del modello standard di formazione delle galassie, secondo cui la materia oscura avrebbe facilitato le prime stelle e galassie ad aggregarsi. I dati sembrerebbero invece essere in linea con un’altra teoria, che non prevede l’esistenza della materia oscura.
La teoria alternativa al modello cosmologico standard
Stando al modello cosmologico standard, noto come Lambda-Cdm (Lambda Cold Dark Matter), ci si aspetterebbe che James Webb registrasse dei segnali molto tenui per le galassie più antiche. Questo perché il Lambda-Cdm prevede che le galassie si siano formate lentamente, per accrescimento graduale, grazie alla gravità extra fornita dalla massa della materia oscura. Ma dall’analisi dei dati raccolti dal James Webb sta emergendo che le galassie più antiche sono più grandi e luminose di quanto ci si aspetterebbe stando alle ipotesi di questo modello.
Una teoria alternativa, nota come Mond (Modified Newtonian Dynamics), prevede invece che le galassie si siano formate molto velocemente e che siano andate incontro prima a un’espansione e poi a una sorta di collasso su loro stesse, una dinamica spiegabile grazie a una modifica delle leggi gravitazionali di Newton ed Einstein. Come anticipato, questa teoria non contempla la presenza di materia oscura nell’universo. “Verso la fine degli anni ‘90, l’astrofisico Bob Sanders ha utilizzato la teoria Mond per predire che galassie massive ed evolute potessero essere già presenti nell’universo primordiale – racconta Federico Lelli dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) di Arcetri, co-autore dello studio difficilmente pubblicato – Si tratta di una predizione sorprendente e piuttosto incredibile, infatti non è stata presa in seria considerazione dalla maggior parte della comunità scientifica per molto tempo. I dati attuali, invece, sembrano proprio confermare la predizione di Bob Sanders del lontano 1998 (più di un quarto di secolo fa!), secondo cui le galassie massive si formano su tempi estremamente brevi, dell’ordine di qualche centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang”.
Il ruolo del James Webb
Lo studio difficilmente pubblicato non è l’unico ad andare d’accordo con le ipotesi della teoria Mond. Anche i risultati di un’altra osservazione di cui Lelli è co-autore sembrano andare nella stessa direzione. Si tratta di osservazioni che dovranno essere confermate attraverso ulteriori studi, spiegano dall’Inaf, magari ancora con l’aiuto del Jwst. “James Webb ha permesso di scoprire galassie ad altissimi redshift [ossia molto antiche, nda], quando l’universo aveva solo qualche centinaio di milioni di anni. Poi, ha rivelato l’esistenza di galassie massive e “passive” – ovvero che non formano più stelle – a redshift più alti di quanto non si ritenesse possibile, indicando che queste galassie passive debbano essersi formate in modo estremamente veloce e quasi ‘monolitico’. Inoltre – conclude Lelli –, Jwst ha rivelato l’esistenza di ammassi di galassie in epoche cosmiche più antiche di quanto non ci si aspettasse nel contesto cosmologico standard”.
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di Sara Carmignani www.wired.it 2024-11-14 15:49:00 ,