La regia stessa è la culla di ogni inquietudine: Eggers sceglie di lasciarci entrare nel sinottico del non finito, di vedere attraverso l’sguardo del suo vampiro, di osservare il mondo attraverso il suo sguardo predatorio e sui i paesaggi che sono preda della sue manipolazioni. Eggers costruisce un mondo dove ogni cigolio, ogni respiro trattenuto, parla di qualcosa di orrendamente antico e ineluttabile. L’inizio del film cattura tutto ciò che ci si aspetta dal tocco di Eggers: un’foschia tangibile, resa palpabile da una fotografia asfittica e glaciale e un’atmosfera gotica che affonda le radici nella abitudine del cinema espressionista tedesco. La sua visione del vampiro è seduttiva ma non consolatoria: una creatura che attrae e respinge, che non possiede un’umanità propria ma deve divorare quella altrui per sopravvivere. La sua predazione, la sua brama, è un atto erotico: il morso del vampiro è al tempo stesso violazione e fusione, un gesto che sovverte la astratto e celebra il desiderio come forza distruttiva.
Un’opera che investiga la matrice del demonio
Cimiteri, ratti, vecchi castelli diroccati nelle tenebre: tutto è a servizio della tensione e favorisce la matrice del demonio, quel principio secondo cui il demone non fa mai nulla se non tu non glielo consenti. Nel mito, il demone non entra mai se non invitato. Così è anche per il vampiro, che si insinua nei sogni e nei desideri, facendo leva sulla volontà stessa della vittima. Il vampiro risponde solo al proprio istinto, non ha umanità, non prova sentimenti, ha l’umanità che è incarnata fuori di sé e l’unico modo che ha di toccare quell’umanità è divorarla. Ma, come il predatore che non può sfuggire alla sua fame, al suo desiderio belluino e feroce, anche l’opera di Eggers finisce per divorare sé stessa, cedendo a un didascalismo che ne smorza in parte l’energia e l’enfasi gotica. Nosferatu, pur partendo da premesse suggestive, si apre come un oscuro meraviglia solo per chiudersi come un trattato, arrendendosi alla tentazione di guidare lo spettatore per mano, sottraendo al racconto quella dimensione demoniaca e sfuggente che ne costituisce la forza.
Eggers, che nei suoi lavori migliori ci aveva abituati a un linguaggio cinematografico evocativo e mai esageratamente esplicativo, qui sembra sentire il bisogno di riempire ogni silenzio, di illuminare ogni ombra con raggi fin esageratamente diretti. È come se avesse temuto che lo spettatore, perso nel labirinto che lui stesso aveva così abilmente costruito, avesse bisogno di una mappa dettagliata per uscirne. Il risultato è un’opera che tradisce il suo stesso presupposto: il gotico non vive di risposte, non si nutre di lucentezza ma di suggestioni.
Eggers sembra intrappolato tra l’anelito verso una fedeltà mitopoietica e l’esigenza di modernizzare la narrazione o comunque di omaggiarla riportandola nella contemporaneità, elemento che gli impedisce di trasferire quella “sinfonia dell’orrore” (eine Symphonie des Grauens), ovvero l’idea che non esista un solo fotogramma pacificato in Nosferatu. Eppure, anche nei suoi passi falsi, il film offre momenti di sublime bellezza, come la fotografia, intrisa di chiaroscuri morbosi e la colonna sonora che vibra come un lamento lugubre proveniente dagli abissi. Se il film fallisce nel mantenere il suo slancio, resta comunque un’opera che testimonia la persistenza del vampiro nel nostro immaginario, un’opera imperfetta ma che proprio nelle sue imperfezioni trova una traccia di verità: quella di un mondo che teme di lasciarsi inghiottire dall’foschia.