Il nuovo numero di Passenger, il libro-rivista sui viaggi della casa editrice Iperborea, in uscita il 14 aprile, è dedicato a un posto decisamente difficile da raggiungere: lo Spazio. Se la corsa per conquistarlo è rallentata per diversi decenni, dopo i gloriosi anni Sessanta, ultimamente è ripresa con nuovi protagonisti e nuove regole: si sono affacciate l’India e la Cina, le agenzie spaziali come la Nasa devono appoggiarsi a finanziatori privati e una nuova generazione di imprenditori visionari e megalomani ha raccolto la sfida di colonizzare un nuovo pianeta. Il numero racconta a che punto siamo: dalla ricerca di vita intelligente portata avanti dalla Cina alla nascita dell’astrobiologia, dai nuovi paesi che vogliono sfruttare la Luna a una gita a Cape Canaveral, la cosiddetta Disney dello Spazio.
Il volume è arricchito con infografiche, consigli di libri, film e documentari per approfondire e da una playlist messa insieme dal musicista Giorgio Sancristoforo sul rapporto tra Spazio e musica. A questo numero ha contribuito anche Emanuele Menietti, giornalista scientifico del Post, che ha raccontato i pianeti del sistema solare, chi sono i nuovi protagonisti della corsa spaziale e com’è vivere in orbita. Diversamente dagli altri numeri, le fotografie non sono state affidate a un unico fotografo ma l’agenzia Prospekt Photographers ha selezionato progetti fotografici di autori diversi, ognuno con una riflessione originale sull’argomento.
I numeri di The Passenger usciti finora hanno parlato di Roma, Parigi, Svezia, Turchia, India, Brasile, Berlino, Norvegia, Grecia, Portogallo, Islanda, Paesi Bassi e Giappone. Oltre che sul sito, potete seguire la rivista su Instagram, Facebook e Twitter.
Di seguito, un estratto dall’articolo Primo contatto di Ross Andersen, vicedirettore della rivista Atlantic che sta collaborando a un libro sulla ricerca di intelligenza extraterrestre: tema che riprende anche qui, dove racconta la visita al più grande e sensibile radiotelescopio al mondo, che si trova in Cina ed è stato progettato apposta per captare un messaggio dallo spazio.
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Primo contatto
di Ross Andersen
Traduzione di Fabio Deotto
Nel 2017, l’Accademia cinese delle Scienze invitò Liu Cixin, il più importante autore di fantascienza del paese, a visitare il nuovo avveniristico radiotelescopio nel Sudovest della Cina. Con un diametro quasi doppio rispetto al disco dell’osservatorio americano di Arecibo nella giungla di Porto Rico (crollato nel 2020 dopo che un terremoto lo aveva gravemente danneggiato), l’antenna cinese è la più grande del mondo, per non dire dell’universo. Nonostante sia sufficientemente sensibile da rilevare la presenza di satelliti spia anche quando non stanno trasmettendo, viene impiegata principalmente per scopi scientifici, incluso uno piuttosto insolito: è infatti il primo tra i grandi osservatori terrestri a essere stato progettato appositamente per captare un messaggio proveniente da un’intelligenza extraterrestre. Se nel prossimo decennio dal cielo dovesse arrivare un segnale di questo tipo, la Cina potrebbe essere la prima a sentirlo.
Per certi versi non sorprende che Liu sia stato invitato a visitare l’osservatorio, dato che la sua voce ha un peso non indifferente nelle scelte della Cina riguardanti lo spazio e che l’agenzia aerospaziale del governo cinese si avvale ogni tanto della sua consulenza nelle missioni scientifiche. Liu è considerato il patriarca della fantascienza cinese. Altri autori cinesi che ho incontrato associano al suo nome l’onorifico Da, che significa «grande». In anni passati, gli ingegneri dell’accademia inviavano regolarmente a Liu aggiornamenti illustrati sulla costruzione del disco, con note che spiegavano quanto la sua opera avesse influenzato il loro lavoro.
D’altro canto, però, è anche strano che abbiano scelto di invitare Liu a visitare il telescopio, visto che proprio lui ha scritto estensivamente dei rischi legati a un primo contatto, allertandoci su come «l’apparizione di questo Altro» potrebbe essere imminente e comportare la nostra estinzione. «Forse per i prossimi diecimila anni il cielo stellato a cui l’umanità rivolge il suo sguardo rimarrà vuoto e silenzioso» scrive nella postfazione di uno dei suoi libri. «Ma è anche possibile che domani ci sveglieremo e troveremo un’astronave aliena grossa quanto la Luna parcheggiata nella nostra orbita».
Di recente Liu è stato accolto tra le fila degli autori più rispettati del panorama letterario mondiale. Nel 2015, il suo romanzo Il problema dei tre corpi (edito in Italia da Mondadori nel 2017) è stata la prima opera tradotta a vincere un Hugo award, il premio più prestigioso per la letteratura di fantascienza. Barack Obama ha dichiarato al New York Times che quel libro – il primo di una trilogia – gli ha consentito di mantenere una prospettiva cosmica nella frenesia della sua presidenza. Liu mi ha rivelato che lo staff di Obama gli ha chiesto di poter avere una copia in anteprima del terzo volume.
Alla fine del secondo libro della serie, uno dei protagonisti esplicita la filosofia che anima l’intera trilogia. Nessuna civiltà dovrebbe mai annunciare la propria presenza nel cosmo, dice. Qualunque altra civiltà che venisse a conoscenza della sua esistenza tenderà a percepirla come una minaccia espansionistica – tutte le civiltà tendono a espandersi, eliminando le proprie rivali, finché non ne incontrano una dotata di una tecnologia superiore, da cui vengono a loro volta eliminate. Questa cupa visione cosmica prende il nome di «teoria della foresta oscura», perché concepisce ogni civiltà presente nell’universo come un cacciatore nascosto nel buio di una selva senza luna, con l’orecchio teso ad aspettare il primo fruscio di un nemico.
La trilogia di Liu si apre alla fine degli anni Sessanta, durante la Rivoluzione culturale di Mao, quando una giovane donna cinese invia un messaggio a un sistema stellare vicino. La civiltà che lo riceve si imbarca in una missione lunga secoli che avrà come scopo l’invasione della Terra; ma a lei non importa: gli orribili eccessi delle Guardie rosse l’hanno convinta che gli umani non meritano più di sopravvivere. Mentre è in rotta verso il nostro pianeta, la civiltà extraterrestre manda in tilt i nostri acceleratori di particelle per impedirci di fare progressi nell’ambito della «fisica di guerra», come quello che ha consentito di sviluppare la bomba atomica a meno di un secolo di distanza dall’invenzione del fucile a ripetizione.
La fantascienza viene talvolta descritta come una letteratura del futuro, tuttavia uno dei suoi approcci più ricorrenti è quello dell’allegoria storica. Isaac Asimov basò la sua saga della Fondazione sulla Roma classica, e Dune di Frank Herbert prendeva in prestito storie e dinamiche ispirate alla tradizione beduina. Liu preferisce non tracciare connessioni tra i suoi libri e il mondo reale, ma mi ha raccontato che il suo lavoro è stato influenzato dalla storia delle civiltà terrestri, «in particolare gli incontri tra civiltà tecnologicamente più avanzate e quelle indigene di un luogo». Uno di questi incontri avvenne durante il XIX secolo, quando il «Regno di mezzo» cinese, attorno al quale un tempo ruotava l’Asia intera, vide arrivare dal mare le imbarcazioni degli imperi marittimi europei, la cui successiva invasione innescò un declino paragonabile alla caduta di Roma.
Quando sono andato in Cina a visitare il nuovo osservatorio, ho prima incontrato Liu a Pechino. Mentre chiacchieravamo, gli ho chiesto dell’adattamento cinematografico del Problema dei tre corpi. «La gente qui vuole che sia lo Star wars cinese» mi ha detto, con evidente amarezza. Le costose riprese si sono concluse a metà del 2015, ma poi l’uscita del film è stata posticipata a data da definirsi. A un certo punto, l’intero team responsabile degli effetti speciali è stato sostituito. «Quando si tratta di fare film di fantascienza, il nostro sistema non è ancora maturo» ha spiegato Liu. Ero venuto a intervistare Liu in qualità di filosofo cinese di riferimento sul tema del primo contatto, ma volevo anche sapere cosa aspettarmi dalla visita al nuovo radiotelescopio. Dopo che un interprete ha finito di tradurre la mia domanda, Liu ha smesso di fumare e ha sorriso. «Sembra una cosa uscita da una storia di fantascienza» ha detto.
Una settimana dopo sono partito da Shanghai a bordo di un treno ad alta velocità, lasciandomi alle spalle il suo bagliore violaceo alla Blade runner, i caffè alla moda e le birrerie artigianali. Mentre sfrecciavo lungo il binario sopraelevato ho guardato i grattacieli passarmi accanto, ognuno un piccolo alveare incastonato nella megastruttura urbana interconnessa che di recente è emersa dal paesaggio cinese. Ha colato più cemento la Cina dal 2011 al 2013 di quanto gli Stati Uniti abbiano fatto in tutto il XX secolo. Questo paese ha già costruito ferrovie in Africa e progetta di connettere i suoi treni ad alta velocità all’Europa e, scavando un tunnel sotto lo stretto di Bering, al Nord America.
I grattacieli e le gru diminuivano a mano a mano che mi spostavo nell’entroterra. Circondato com’ero da risaie verde smeraldo immerse in una bassa foschia, mi risultava facile immaginarmi la Cina antica – quella civiltà il cui linguaggio scritto venne adottato in gran parte dell’Asia; che per prima introdusse le monete metalliche, le banconote e la polvere da sparo; che addomesticò i propri fiumi in un sistema di canali ancora oggi utilizzato per irrigare le colline terrazzate del paese. Quelle colline si facevano via via più ripide mentre ci spostavamo verso ovest, come enormi scale i cui gradini salivano sempre più in alto, al punto da costringermi ad appiccicarmi al vetro per scorgerne le cime. Ogni tanto sentivo risuonare l’equivalente di una nota di basso del compositore tedesco Hans Zimmer e il finestrino si riempiva del bianco liscio e futuristico di un altro treno che schizzava nella direzione opposta a più di trecento chilometri orari.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando siamo infine scivolati nella caverna scintillante di un terminal a Guiyang, il capoluogo della provincia di Guizhou, una delle più remote e povere di tutta la Cina. Sembrava fosse in atto una sorta di trasformazione sociale imposta dal governo. Dei cartelli supplicavano le persone di non sputare al chiuso. Gli altoparlanti assillavano i passeggeri chiedendo di «mantenere un’atmosfera educata». Quando un uomo anziano saltò la fila per i taxi un agente della sicurezza lo strigliò di fronte a centinaia di persone.
Il mattino successivo sono sceso nella hall del mio hotel per incontrare l’autista che avevo reclutato perché mi portasse all’osservatorio. Dopo due ore di quello che avrebbe dovuto essere un tragitto di quattro, l’ho visto accostare, scendere sotto la pioggia e farsi una trentina di metri al guado in un campo dove una vecchia stava raccogliendo il riso, il tutto per chiederle indicazioni per un radiotelescopio che stava a più di 150 chilometri di distanza. Dopo tanto gesticolare, con la frustrazione che montava da entrambe le parti, la vecchia ha puntato la falce che aveva in mano in una direzione.
Abbiamo attraversato una serie di piccoli villaggi, clacsonando ripetutamente per sgomberare la strada da motociclisti e pedoni. Alcuni degli edifici lungo il percorso erano vecchi di secoli, e avevano i tipici tetti con gli aggetti ricurvi; altri erano di recente costruzione, e ospitavano persone che erano state rilocate dallo stato per creare spazio per il nuovo osservatorio. Un gruppo di questi sfollati si era lamentato della nuova sistemazione, attirando l’attenzione della stampa – un’eventualità rara per un programma governativo in Cina. I giornalisti occidentali avevano drizzato le orecchie. «Novemila sgomberi forzati per costruire un telescopio per la caccia agli extraterrestri» recitava un titolo del New York Times.