«Sembra lo sketch della fontana di Trevi venduta da Totò. È come aver trattato con il “famoso cavaliere Trevi proprietario della famosa fontana omonima”: l’Avvocato del popolo non era titolare del Movimento, in pratica abbiamo fatto accordi con un semplice cittadino». L’amara iperbole pronunciata a caldo da un dirigente dem – Giuseppe Conte nei panni di un involontario Totò e il Pd nei panni dell’italo-americano Decio Cavallo che nel film si compra la fontana – è il segno dello stato di shock in cui è piombato il partito democratico dall’esatto momento di martedì scorso in cui Beppe Grillo ha diffuso la nota di benservito all’ex premier. Gettando i Cinque stelle nel mezzo di una contesa termonucleare, con un tutti contro tutti mai visto prima. E, fatte le dovute proporzioni, gettando nel caos anche il Pd, che in qualche modo aveva fatto i conti senza Grillo. Chi, in quei minuti, assisteva a Bologna all’avvio della presentazione del libro di Enrico Letta ha dovuto annotare l’impaurito sgomento che esondava dagli occhi del segretario dem, intento a leggere il messaggio grillino diffuso in quel momento dalle agenzie e abile, subito dopo, a non verbalizzare nulla più che l’asserita «preoccupazione» per la situazione e per il futuro. Solo in un passaggio della presentazione il segretario ha esplicitamente tradito un timore, quando – senza che nessuno glielo avesse chiesto – si è detto «convinto che questa cosa non avrà ripercussioni sul governo». Una paura, non certo l’unica.
C’è la stabilità dell’esecutivo sul piatto, certo: anche se, va detto, Beppe Grillo sin da subito ha posizionato il Movimento pro-governo Draghi ben più di quanto abbia fatto l’ex premier di Volturara Appula, dimostrando nei fatti ancora una volta – dopo il sì all’esecutivo giallorosa – una inclinazione governista che le sue parole non dicono. Ma c’è anche l’ormai incombente partita per il Quirinale, in cima ai pensieri della dirigenza dem, che la considera la madre di tutte le battaglie (nonostante abbia ripetutamente condannato il Pd ad accollarsi un ruolo tutto establishment e poltrone, limite rilevato da Letta nell’insediamento); come pure c’è il punto interrogativo su come mantenere, nel mezzo del caos grillino, lo status quo che i dem hanno tenacemente perseguito finora (e che garantisce gli eletti, ciascuno per il suo), così anche quale possa essere la ricaduta territoriale nelle prossime amministrative, organizzazione anch’essa tutta da rivedere, almeno in teoria.
Insieme con l’ex premier dei due mondi (giallo-verde e giallo-rosa), insomma, è andato in fibrillazione l’intero impianto su cui Enrico Letta ha impostato la sua segreteria: vale a dire sul presupposto che il futuro del Pd abbia come base un necessario accordo coi Cinque Stelle, con Giuseppe Conte come «valore aggiunto», secondo una convinzione già bettiniana e adesso magistralmente incarnata da Francesco Boccia, da sempre ufficiale di collegamento con l’avvocato del popolo, in epoca lettiana anche (da responsabile Enti locali) vicesegretario di fatto, per tutta una serie di questioni. Tuttavia, se sotto il governo di Conte il M5S si era rivelato via via più affidabile per i dem, d’ora in poi il rischio concreto per il Pd è quello di ritrovarsi di fronte un alleato friabile, malcerto, per lo meno ambivalente, se non doppio o frantumato, sempre pronto alla sparizione o al terremoto. Una situazione molto più simile a quella dei tempi degli streaming con Pier Luigi Bersani e, poi, con Matteo Renzi. Ma senza la stessa intraprendenza, da parte dem.
Non è certo per caso che la prima vera preoccupazione manifestata da Letta riguardi proprio il Quirinale, che è poi la pietra angolare su cui si regge l’attuale posizionamento del Pd, tanto legato agli esiti grillini. Con un peso massimo come il ministro della Cultura Dario Franceschini tutt’ora puntato, con le dovute cautele, al Colle più alto (non sarebbe peraltro l’unico dem ad ambirvi, a quanto si dice nei corridoi del Nazareno), si concentrano infatti lì gli sforzi: e con un M5S allo sbando, scisso o comunque venato al suo interno da molteplici fratture, sarà assai più difficile, a fine gennaio 2022, poter contare sui preziosi attuali 237 parlamentari a Cinque Stelle (più un’altra sessantina, divisi tra i 19 di Alternativa C’è e gli altri fuoriusciti sparsi nel gruppo Misto), con i quali il Pd aveva in mente di andare a braccetto per poter poi aprire la partita a scacchi col centrodestra e restante arco parlamentare. Avendo un peso, una forza contrattuale ben diversa da quella che si prospetta adesso.
Basti ricordare i precedenti, quando ancora nemmeno c’era la piattaforma Rousseau. Senza ripensare alle spaventose settimane della primavera 2013 che precedettero la rielezione di Giorgio Napolitano, quando i grillini manifestavano in piazza Montecitorio, basterà dire che nel gennaio 2015, due giorni prima dell’elezione di Sergio Mattarella, sul blog grillino i militanti potevano scegliere all’interno di una rosa di nove nomi, tra cui quelli di Romano Prodi, Pier Luigi Bersani,Nino Di Matteo, Gustavo Zagrebelsky. Certo, è improbabile un ritorno a quelle modalità, eppure un rigurgito identitario i dem lo mettono senz’altro nel conto.
Non sarà ritorno al Vaffa, ma di certo a una maggiore autonomia – quella che è stata la fortuna dei Cinque Stelle, e adesso nell’epoca del governo Draghi, tutta da reinterpretare.
Vale per l’atteggiamento parlamentare. Vale di certo per i vari territori nei quali a breve si andrà al voto. Il nuovo assetto, in effetti, rafforza assai per esempio la ricandidatura a Roma di Virginia Raggi: l’ostinazione con cui la sindaca si è opposta alla volontà dell’Avvocato del popolo – che a suo tempo, sempre modello fontana di Trevi, aveva assicurato il ritiro a fronte della candidatura di Nicola Zingaretti – si rivela ancor più sagace di quanto non sembrasse già prima. Raggi in fondo ha seguito quella che è l’impostazione originaria del Movimento in fatto di competizioni locali. Vale a dire: non importa candidarsi ovunque, l’alternativa è esserci sulle proprie gambe, o non esserci affatto. Raramente è stata scelta l’alleanza, e sempre con risultati disastrosi: vedasi, ad esempio, il caso della regione Umbria che andò al voto nell’ottobre 2019, poco dopo la nascita del governo giallorosa.
Proprio per questo, adesso, risultano indebolite le realtà frutto del faticoso dialogo Pd-M5S. A partire dai due casi che lo stesso ex premier Giuseppe Conte, nella conferenza stampa di lunedì, ha vantato come «progetti forti» che è pronto «a sostenere, anche da semplice cittadino». Le candidature dell’ex rettore Gaetano Manfredi a Napoli e dell’imprenditrice Maria Antonietta Ventura per la Calabria. Percorsi decisamente diversi, ma accomunati da una ostanziale subalternità (il responsabile dem Enti Locali la chiama «generosità») mostrata dal Pd nel corso della trattativa: sia in un caso che nell’altro, si tratta di nomi individuati prima di tutto dai grillini. Direttamente Conte, nel caso di Manfredi. Quanto a Ventura, è stato l’ex sottosegretario grillino Vincenzo Spadafora a fare per primo il nome (il legame attraverso l’Unicef, di cui lui è stato presidente nazionale, lei provinciale e regionale), scintilla prontamente sostenuta da Boccia (di Bisceglie come l’imprenditrice) con un entusiasmo tale da aver stupito anche i concittadini – che non avevano mai visto lui spendersi così tanto per chiunque altro.
Due scelte rivelatrici della volontà del Pd, di ammantarsi di qualcosa d’altro: a Napoli, il primo e unico bagno di folla a sostegno della candidatura di Manfredi è stato proprio di Giuseppe Conte, che ha girato la zona popolare della Pignasecca, tra via Toledo e i quartieri spagnoli, potendo contare – a differenza dell’ex rettore sconosciuto ai più – sul consueto successo di strada che tanto incanta i dem (ebbe a dire Boccia: «chi dice che Conte è il passato non capisce il sentimento popolare che c’è intorno all’esperienza umana e politica che abbiamo fatto. Basta farsi un giro nei nostri circoli e nei quartieri popolari»). A Napoli del resto, per dire del clima, i percettori del grillino reddito di cittadinanza sono circa 200 mila su quasi un milione di persone, e al contrario il Pd può contare su un grado di accoglienza tale da consigliare al partito a fare la festa dell’Unità, a fine luglio, ad Agnano, il più lontano possibile dal cuore della città.
Ancora più indebolita, dal caos, la corsa di Maria Antonietta Ventura. Appena entrata in campo, si è praticamente già persa per strada quello che era una delle due leve che erano state determinanti nella scelta: Conte, appunto (l’altro: l’essere donna). Industriale delle ferrovie, proprietaria dell’impresa di famiglia di cui detiene un terzo delle quote, discendente di una genia di costruttori che opera e fa affari nel sud da almeno ottant’anni (suo padre si trasferì dalla Puglia alla Calabria per costruire il tratto Taranto-Reggio), scelta al termine di un estenuante «casting», Ventura ha un profilo più da candidata di Forza Italia che di un qualsiasi tipo di centrosinistra, rientrando peraltro alla perfezione nel gruppo dei ricchi da tassare con la patrimoniale ipotizzata da Letta.
Misteriosamente, le ombre di tipo giudiziario pendenti sulla sua famiglia (il fratello coinvolto nell’inchiesta Passepartout coordinata da Nicola Gratteri, il consorzio leccese di cui fa parte l’azienda di famiglia raggiunto da una interdittiva per tentativo di infiltrazione mafiosa) non hanno stavolta fatto alzare ufficialmente sopraccigli da parte dell’intendenza grillina. Tuttavia, già prima del fuoco di Grillo contro Conte, il suo nome «paracadutato» aveva coagulato dissensi trasversali: dal ceto politico locale del Pd ai meno contiani tra i Cinque Stelle, per finire a larghi strati della sinistra di Articolo 1. Figurarsi, dunque, adesso, che la prospettiva del ritorno alla consultazione dei grillini, via piattaforma Rousseau, ha rimesso in forse tutto. Compresa l’agibilità dell’utilizzo del simbolo a Cinque stelle nelle varie consultazioni: servirà un voto anche per quello? Non è chiaro, come quasi nulla del resto. Di certo una nuova fase si è fatta largo in un orizzonte votato alla maggior stabilità possibile, e sembra ancora più spietata della precedente.