Ai bei tempi, quando passava da un raid di Borsa all’altro, Raffaele Mincione amava raccontarsi come un uomo d’affari che aveva fatto fortuna a Londra grazie ad «alcuni investimenti personali andati bene». E alle domande sui finanziatori di scalate clamorose come quelle su Popolare Milano, Mps e Carige, il golden boy della City, come con scarsa fantasia era stato etichettato, spiegava che «i clienti chiedono riservatezza». Adesso, le carte dell’accusa vaticana, un faldone di 500 pagine che condensa i risultati di due anni di indagini sulla malagestio del tesoro della Chiesa, descrivono Mincione come «l’indiscusso dominus, a partire dal mese di luglio del 2014, di una parte considerevole delle finanze della Segreteria di Stato» all’epoca diretta dal cardinale Angelo Becciu.
I soldi, insomma, erano quelli della Chiesa. I capitali che per anni, almeno dal 2013 al 2019, hanno alimentato una girandola infernale di acquisti, vendite, prestiti, pegni e garanzie, arrivavano direttamente dalla Santa Sede che aveva investito almeno 200 milioni di euro nei fondi di Mincione con il marchio Athena. Il denaro rimbalzava tra società con base in paradisi fiscali come Lussemburgo, Jersey, Malta, isole Mauritius per finire almeno in parte nei conti bancari del finanziere italiano con base a Londra e domicilio in Svizzera, a Silvaplana, poco distante da Sankt Moritz. «Le somme della Segreteria di Stato», si legge nel documento d’accusa, «venivano utilizzate anche per finanziare soggetti giuridici facenti capo allo stesso Raffaele Mincione, il quale, mentre da un lato era il gestore del fondo (remunerato con generose commissioni) dall’altro poteva utilizzare le risorse finanziarie per sostenere proprie iniziative».
Non solo banche, quindi. Nell’elenco degli investimenti finanziati dal Vaticano ci sono anche obbligazioni per 16 milioni di dollari emesse da Time and Life, la holding lussemburghese di Mincione, e poi azioni di società quotate in Borsa come Retelit, a cui fanno capo più di 12 mila chilometri di fibra ottica. Per gestire quest’ultima operazione, nell’aprile del 2018 la holding Fiber 4.0 controllata dal finanziere ora sotto accusa arruolò come avvocato anche Giuseppe Conte, destinato di lì a poco a diventare presidente del Consiglio nel governo tra Cinque Stelle e Lega. Conte, che ha negato di aver mai incontrato di persona Mincione, venne ingaggiato per redigere un parere sull’applicabilità a Retelit della norma sul cosiddetto golden power, con cui il governo può porre il veto al passaggio di proprietà di aziende che operano in settori ritenuti strategici. Una questione particolarmente delicata, visto che Retelit ha anche lo stato libico come azionista di rilievo. Sei mesi dopo quell’episodio, quando entra nel vivo la battaglia in Borsa per il controllo di Carige, un’altra scalata finanziata con i soldi del Vaticano, tra i consulenti legali dell’Athena fund di Mincione troviamo in prima fila Guido Alpa, che di Conte, nel frattempo approdato a Palazzo Chigi, è stato maestro, mentore e partner in numerose iniziative accademiche e professionali.
È la conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che Mincione sapeva bene come muoversi su entrambe le sponde del Tevere, nella Curia vaticana come nelle stanze del potere romano, tra politica e alta burocrazia. Difficile spiegare altrimenti il rapporto strettissimo con l’ex capo del governo Lamberto Dini, che nel 2013 accettò di guidare, come presidente in pectore, la lista dei candidati per il consiglio di amministrazione della Popolare di Milano presentata da Athena fund. Quella scalata venne inizialmente finanziata grazie ai capitali generosamente elargiti da Enasarco, il fondo previdenziale degli agenti di commercio le cui alterne vicende si intrecciano da sempre con partiti e sindacati. Quando però Enasarco, dopo un traumatico ribaltone al vertice, decise di tagliare i ponti con Mincione, messo sotto accusa per i conflitti d’interesse e i pessimi risultati della sua gestione, a salvare la situazione fu proprio l’intervento di Becciu. Nel 2013, il gestore in difficoltà trovò quindi nella Segreteria di Stato il «polmone finanziario da cui attingere ossigeno per saldare i conti con Enasarco», recita l’atto d’accusa dei magistrati vaticani.
Il cambio di cavallo non è però stato immediato. Per passare dalle parole ai fatti e sancire una volta per tutte il divorzio da Enasarco sono andate in scena numerose e complesse operazioni finanziarie nell’arco di un paio di anni. Nel luglio, la Segreteria di Stato investì circa 100 milioni di dollari nel palazzo londinese di Sloane Avenue. L’affare andò in porto sulla base di una valutazione – sostiene l’accusa – «del tutto ingiustificata». Nell’estate del 2019, proprio da questo affare sospetto è partita l’indagine dei magistrati vaticani sulla gestione dei fondi dell’Obolo di San Pietro. Un’indagine che per Mincione si è conclusa nei giorni scorsi con il rinvio a giudizio per peculato, truffa, appropriazione indebita e abuso d’ufficio.
L’inchiesta penale e la conseguente pubblicità negativa non hanno però impedito al finanziere di continuare a macinare affari. Il più importante di tutti, un paio di anni fa, è stato concluso insieme a Conad, leader nazionale dei supermercati. Mincione si è messo in società con il colosso della grande distribuzione per gestire il patrimonio immobiliare ceduto dalla filiale italiana della francese Auchan, assorbita da Conad.
La società comune si chiama Bdc Italia e vede i fondi Athena al 49 per cento con il partner al 51. Come rivelato dall’Espresso un anno fa, nell’operazione è stata coinvolta anche una vecchia conoscenza di Mincione come Carlo Felice Maggi, già direttore generale di Enasarco quando l’ente previdenziale affidò 185 milioni in gestione al finanziere con risultati disastrosi. Maggi è stato nominato consigliere di amministrazione di Margherita distribuzione, controllata da Bdc Italia. Adesso le carte dell’inchiesta vaticana confermano le rivelazioni dell’Espresso con l’aggiunta di un particolare illuminante.
L’ex manager Enasarco ha infatti ricevuto almeno 500 mila euro da una società offshore di Mincione a Jersey. Un pagamento che secondo l’accusa farebbe parte di un più complesso accordo (Termination agreement) tra i due sodali per un valore complessivo di 5 milioni, soldi anche questi provenienti dalle casse del Vaticano e affidati in gestione al finanziere. Nel gennaio del 2020, contattato dall’Espresso, Maggi spiegò di «non avere nessun rapporto personale con Mincione», salvo rassegnare le dimissioni dal consiglio di Margherita distribuzione poco dopo l’uscita dell’articolo che lo riguardava.