S’era detto insieme dentro, insieme fuori. Con più slancio anglofilo: «Together in, together out». E invece l’Alleanza atlantica «politica e militare» Nato ha fallito pure l’ultima promessa in Afghanistan dopo vent’anni di guerra con frammenti di pace, decine di migliaia di vittime civili, 3.541 soldati caduti, 2.000 miliardi di dollari. Nei giorni della fuga da Kabul con i militari rintanati in aeroporto fra le bombe, il sangue, le lacrime, come ha ricostruito l’Espresso che svela un drammatico episodio avvenuto tra il 26 e il 27 agosto, la Nato era uno spettatore a volte distratto, che staziona nei pressi, gesticola, proclama, osserva, ma non decide, non incide.
Ognuno con la propria divisa: americani, inglesi, tedeschi, francesi, italiani, spagnoli, polacchi, norvegesi, danesi. Ciascuno ha badato a sé stesso, a evacuare informatori, assistenti, familiari, profughi e ciascuno ha supportato l’altro per quel vincolo profondo di solidarietà che lega i militari. A rappresentare l’Alleanza atlantica in Afghanistan c’era l’italiano Stefano Pontecorvo, diplomatico di rango ministro plenipotenziario, già ambasciatore in Pakistan e consigliere dei ministri Mario Mauro e Roberta Pinotti alla Difesa nei governi di Enrico Letta e Matteo Renzi. Pontecorvo era il capo «civile» della missione Nato ritrovatosi nel posto sbagliato al momento giusto.
Il passaparola omerico e la semplificazione giornalistica hanno trasformato l’inconsapevole diplomatico nel «gestore» dell’aeroporto di Kabul durante l’evacuazione sotto le pressioni dei talebani e le minacce dei terroristi islamici. Al contrario, il compito di Pontecorvo era davvero ingrato: ricordare l’esistenza dell’Alleanza atlantica. Il club con sede a Bruxelles da sempre dominato dal socio forte Usa.
Il piano di uscita Nato concordato con i talebani, dopo gli accordi di Doha (Qatar) stipulati dall’amministrazione americana di Donald Trump e subìti e criticati dai governi europei, prevedeva che fosse l’esercito turco a mantenere il controllo dell’aeroporto prima di riconsegnare l’Afghanistan al suo passato oscurantista con i talebani. Quel confine sottile fra la vita e la morte a Kabul è saltato ancora alla vigilia di ferragosto: migliaia di disperati salvati dagli occidentali e centinaia di disperati ammassati in pista fra le colonne dei velivoli, schiacciati dalle ruote, aggrappati ai carrelli, precipitati in volo. Allora gli americani hanno imposto regole diverse e con gli inglesi hanno preso il possesso dell’aeroporto: presidio degli ingressi, ordini di partenza, distribuzione degli spazi. E in un luogo defilato c’era l’ufficio del rappresentante Pontecorvo con un gruppo di funzionari Nato e una dozzina di valenti carabinieri del reggimento paracadutisti Tuscania. Il traffico, i decolli, gli arrivi erano diretti dagli americani con gli inglesi. Alle riunioni mattutine si confrontavano i delegati nazionali per stabilire i turni in pista, al tavolo c’era anche Pontecorvo, ma il comando informale e sostanziale era degli Usa.
L’eccellente sintonia degli apparati italiani, militari, diplomatici e di intelligence, con gli americani ha permesso di trasferire a Roma oltre 5.000 afghani. Così fonti ufficiali Nato descrivono la funzione di Pontecorvo e ammettono che l’Alleanza atlantica all’aeroporto di Kabul non aveva né il «gestore» né la «gestione»: «L’ambasciatore e la sua squadra hanno svolto un ruolo fondamentale nel mantenere i contatti con i rappresentanti dei Paesi Alleati e della Comunità Internazionale. Nel corso di due settimane, oltre 120.000 persone sono state evacuate, su centinaia di voli, anche dalle nazioni alleate. Le truppe degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Turchia e della Norvegia hanno svolto un ruolo chiave nella messa in sicurezza dell’aeroporto. Circa 800 membri del personale Nato hanno svolto operazioni di rilievo come il rifornimento e le comunicazioni». In aggiunta ai contatti, Pontecorvo e il suo gruppo erano impegnati con la mensa, la fureria, le segnalazioni. Questa premessa è essenziale per raccontare l’episodio del 26 e del 27 agosto.
Il 26 agosto era un giovedì. Ormai da dieci giorni l’aeroporto era l’unico accesso alla libertà. La discussione fra gli occidentali era già lacerante: lasciare la pista il 31 agosto come garantito ai talebani oppure prolungare il ponte aereo. Il 26 agosto non si era prossimi a una scelta, i terroristi targati Isis Khorasan hanno scelto per gli altri nel pomeriggio di Kabul con un doppio attentato: uno ai varchi dell’aeroporto dove gli afghani si accalcavano attendendo una mano che li tirasse su, e un altro all’albergo internazionale Baron, un attacco ampiamente annunciato nei modi e nei tempi dai servizi segreti americani. Il 26 sera con le ambulanze stracolme di feriti e una stima difettosa di 200 decessi, più di 550 collaboratori Nato di nazionalità afghana erano in cammino per le strade di Kabul con mezzi privati per raggiungere l’aeroporto. Se non stupisce che più di 550 collaboratori Nato, obiettivo di possibili ritorsioni talebane e di concrete violenze terroristiche, fossero ancora lontani da un rifugio a 5 giorni dal fatidico 31 agosto, stupisce che fossero radunati su una decina di autobus dopo un attentato, la confusione totale e l’esercito americano colpito dalla morte di 13 compagni. La tabella di marcia del convoglio non protetto era di responsabilità della Nato e perciò del diplomatico Pontecorvo. Il 26 sera gli americani hanno chiuso l’aeroporto per motivi di sicurezza. Nessuno poteva neanche avvicinarsi. Più di 550 collaboratori Nato, però, non volevano tardare all’appuntamento notturno, già rinviato di un giorno, al punto di incontro a pochi chilometri dalle piste. E poi qualcuno, qualche militare, forse qualche militare americano, a rischio della propria vita, doveva gettarsi fra il tanfo di cadaveri e di carne arsa per strapparli alla notte. Non è successo. I collaboratori Nato di livello 1 e 2, cioè fra quelli più esposti, ex dipendenti della sede di Kabul o impiegati delle agenzie atlantiche, sono rimasti intrappolati chissà dove.
Il 26 erano partiti i tedeschi, i danesi, altri europei. Il venerdì 27 toccava agli italiani. E l’ambasciatore Pontecorvo ha ammainato l’ultima bandiera Nato, quella simbolicamente inastata nel suo ufficio, e si è preparato al lungo viaggio verso Roma con l’apprensione per i 550 collaboratori non ancora entrati. Nel pomeriggio è decollato l’aereo dell’Aeronautica. A bordo c’erano il personale diplomatico con il giovane secondo segretario della Cancelleria, il «console» Tommaso Claudi diventato icona con la foto mentre in giubbotto antiproiettile estrae dalla ressa un bimbo, l’ambasciatore Pontecorvo e il suo gruppo dell’Alleanza atlantica che avevano affidato i 550 al buon cuore degli americani. A Roma entrambi sono stati accolti da eroi. Fra il 28 e il 29 agosto, gli americani sono riusciti a «esfiltrare», termine tecnico che sta bene per una evacuazione assai complessa, gran parte della comitiva dei collaboratori Nato mentre la Nato non c’era più. Le prime settimane di settembre le hanno trascorse in Qatar. Non si conoscono altri dettagli: l’Alleanza atlantica, sollecitata dall’Espresso, non ha commentato l’accaduto. Sempre la Nato ha confermato che numerosi afghani sono a «rischio»: «Migliaia di afghani sono già sbarcati nei Paesi alleati e amici, tra cui Stati Uniti, Canada, Germania, Italia, Polonia, Regno Unito, Albania, Ucraina e Georgia. Altri sono ospitati in Paesi terzi in attesa di essere smistati; e il Qatar sta giocando una parte fondamentale. La Nato non concede asilo né approva le domande di visto, ma sta facendo il possibile con gli alleati su questo tema. Numerose strutture in Europa vengono utilizzate anche per gli afghani in transito, tra cui la base aerea di Ramstein in Germania, Rota in Spagna, Sigonella in Italia e Camp Bechtel in Kosovo. Questo è stato uno sforzo enorme, in condizioni pericolose, ma finora non tutti gli afghani a rischio sono stati evacuati. I nostri sforzi continueranno».
Il caso dei 550 conferma il terribile congedo Nato dal ventennio afghano e giustifica il dibattito europeo, per la verità, già stagionato, sulla necessità di costituire un esercito continentale con altre armi, altri soldi e altre medaglie appuntate ai generali. L’ambizione: dotare l’Unione di una difesa comune. Almeno per insistere con l’abitudine di andare poi da soli.
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di Carlo Tecce
espresso.repubblica.it
2021-09-17 07:37:00 ,