Mario Draghi stava parlando soltanto da quattro minuti e trenta secondi nell’aula del Senato, mercoledì 20 ottobre, ed era già stato interrotto da quattro applausi. L’ultimo della serie ha sorpreso il presidente del Consiglio mentre affermava che «una sfida decisiva per l’Europa è raggiungere l’autonomia tecnologica nei semiconduttori e nelle tecnologie quantistiche…».
L’applauso entusiasta per un argomento di non facile presa popolare ha colpito anche lui e l’ha spinto a ringraziare, un po’ in imbarazzo. Era il ritorno di Draghi in un’aula parlamentare dopo i giorni della campagna elettorale e delle polemiche sull’azione della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, dentro e fuori dalla maggioranza di governo. Quando il premier si è ripreso la scena, tutto è sembrato calmarsi. È la pax draghiana che si stende sul Parlamento e sulle forze politiche. Mentre all’elezione del nuovo Capo dello Stato mancano ormai tre mesi.
La pax di Draghi mette insieme sulla legge di Bilancio da 23 miliardi la Lega sulla riforma delle pensioni, il Movimento 5 Stelle sul finanziamento del reddito di cittadinanza, Forza Italia sul rinvio della plastic e sugar tax, il Pd sull’estensione della cassa integrazione. Ma c’è una separazione sempre più evidente tra le cose da fare, su cui si trova l’accordo, e le divisioni su coalizioni, leadership, quel che un tempo si sarebbero definite identità politiche, su cui ci si divide. È questa, forse, una delle cause profonde della diserzione di massa dal voto nelle ultime elezioni amministrative.
Ha vinto il Pd’A, il Partito dell’Astensione, come l’ha chiamato Ilvo Diamanti (Repubblica, 20 ottobre), forse in contrapposizione con il Pd’A dell’inizio della storia repubblicana, il Partito d’Azione. L’astensionismo nelle grandi città ha superato nel secondo turno elettorale il 60 % degli aventi diritto. Ma il voto è solo l’ultimo indicatore di allarme sullo stato di salute della partecipazione democratica. Nei mesi scorsi l’Osservatorio sulla sicurezza di Demos-fondazione Unipolis ha segnalato che nell’ultimo anno solo un italiano su dieci afferma di aver preso parte a una qualsiasi manifestazione di carattere politico. L’adesione a iniziative associative di carattere locale si è dimezzata, dal 38 al 20 %, il volontariato sociale è sceso dal 44 al 24 %.
Non solo la politica soffre di abbandono, dunque. C’è una società civile che ha ristretto il suo campo di azione, almeno nelle sue forme tradizionali. Ci sono le nuove forme di mobilitazione: la raccolta di firme digitale sui referendum su eutanasia e cannabis, i giovani di Fridays for Future in vista della Cop26 di Glasgow, i movimenti sui nuovi diritti, contro il razzismo e la violenza di matrice fascista e neo-nazista. E anche le manifestazioni contro l’obbligo del green pass appartengono a questa categoria: mai si era vista una piazza piena di gente che dimostra contro un documento, un pezzo di carta cui viene attribuito un fortissimo potere simbolico (la libertà) e un cambiamento di vita materiale (il lavoro). Mi aziono su una battaglia specifica, mi astengo da una narrazione generale, potrebbe essere lo slogan del tempo nuovo. Anche perché le narrazioni generali faticano a imporsi.
La manifestazione dei sindacati Cgil-Cisl-Uil della settimana scorsa di piazza San Giovanni a Roma sull’anti-fascismo è stata affollata, ma non può far ignorare che in questi anni il sindacato si è indebolito nei luoghi dove si trova a operare, nelle fabbriche, nelle aziende, nei servizi, sui fronti dei nuovi lavori che non sono tutelati da nessuno. Il sindacato unitario è costretto ad accentuare il suo ruolo politico perché il suo ruolo sociale è più fragile e meno riconosciuto. Tutto questo impone ai soggetti sociali riflessione, analisi, studio, ascolto. E umiltà.
È quello che ha cominciato a fare, per esempio, la Chiesa italiana su mandato di papa Francesco. Una settimana fa in tutte le diocesi italiane si sono aperti i sinodi territoriali con cui la chiesa locale cerca una stagione di dialogo con le comunità di riferimento, in chiave religiosa ma anche civile. Il 21 ottobre è cominciata la Settimana sociale dei cattolici a Taranto, la città simbolo di tutte le contraddizioni tra lavoro e salute, ambiente e sviluppo (ne ha scritto il gesuita padre Francesco Occhetta sul numero scorso dell’Espresso). È l’inizio, perché per tornare a formare una classe dirigente serve una formazione che fa emergere una generazione politica. Un gruppo che parla la stessa lingua, condivide esperienze simili e un orizzonte di valori comuni.
Altri soggetti fanno più fatica a riconoscere il loro momento di difficoltà. Alla vigilia del secondo turno delle elezioni amministrative il presidente dell’Anci Antonio Decaro, sindaco di Bari del Pd, ha rivendicato il ruolo dei primi cittadini: «Non ci basta più essere ascoltati, vogliamo entrare nel luogo dove si prendono le decisioni. Se i sindaci si coalizzano, con la forza e il consenso che hanno, lo prendono loro il Pd» (Repubblica, 15 ottobre). E ha parlato di partito di sindaci da far nascere dentro il Pd.
In coerenza con questo obiettivo, si sta provando a inserire nella riforma del testo unico degli enti locali la possibilità per i sindaci di candidarsi in Parlamento senza doversi dimettere dalla carica, sostituendo l’ineleggibilità con l’incompatibilità, da far valere dopo l’elezione. Con questo criterio, anni fa, un oscuro e non memorabile sindaco di Palermo, si chiamava Diego Cammarata, una controfigura del forzista Gianfranco Miccicché, riuscì a farsi un’intera legislatura da sindaco e deputato senza che nessuno lo disturbasse, grazie all’immancabile buco legislativo. Tutto questo avviene però proprio nel momento in cui la disaffezione per la politica coinvolge anche la figura del sindaco, come dimostrano il calo dei votanti alle elezioni amministrative e l’indisponibilità dei nomi più forti, tra i politici e i civici. Il partito dei sindaci, che venti anni fa era una suggestione importante, in presenza di grandi leader che si misuravano con l’amministrazione, oggi appare fuori tempo massimo. Non è una grande idea, per rianimare la partecipazione democratica, farsi approvare una norma per cui un sindaco eletto ai cittadini può candidarsi in Parlamento senza dimettersi dalla carica. Ancora una volta è una risposta verticale e personalizzata alla difficoltà di fare politica di rappresentanza e di decisione sui territori.
Infine, ci sono i partiti. I più travolti dall’astensione sono i partiti del Capo. Quelli che hanno sostituito un nome e un cognome a un’idea e a un progetto. La Lega di Matteo Salvini premier: il Capitano è a secco di idee, il suo argomentare è un cembalo stonato, si è decapottato. Meloni Io-sono-Giorgia, certo, lei è Giorgia, ma gli altri Fratelli d’Italia chi sono? Una questione che va ben oltre il pur ripugnante barone nero che fu candidato alle elezioni politiche nel 2018 e altri nostalgici del saluto romano in queste amministrative. Anche Carlo Calenda avrà ora il problema di dimostrare che Azione non è solo il suo circolo della caccia. E per Matteo Renzi la questione dell’identificazione Leopolda-fondazione Open-Giglio magico (Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Alberto Bianchi) rischia ora di trasferirsi sul piano giudiziario, ma è invece una grande questione politica. Anche il Movimento 5 Stelle ha ora un capo, Giuseppe Conte che riempie i selfie ma non le urne. E il partito del capo per eccellenza, da tutti imitato, segue le assenze e le presenze di Silvio Berlusconi, si accende e si eclissa con lui.
Il leader in politica conta, e molto. Chi ha esorcizzato in passato il modello dell’uomo solo al comando, magari soltanto perché non aveva le qualità per esserlo, ha fatto una brutta fine. Ma ci sono momenti diversi e c’è leader e leader.
Tra i due modelli, la mobilitazione atomizzata su questioni specifiche che però si condanna all’irrilevanza quando sale il conflitto sociale o quando bisogna incidere nelle sedi delle decisioni e i partiti dei Capi che scambiano i followers per gli elettori, «un leader e la sua corte», li ha definiti Sabino Cassese (Corriere della Sera, 20 ottobre), sembra esserci soltanto la necessità Draghi. Il premier illuminato che si prepara, inevitabilmente, inesorabilmente, a trasferirsi da Palazzo Chigi al Quirinale, come abbiamo segnalato da mesi. Un passaggio che può trasformarsi nella massima verticalizzazione e concentrazione del potere, può perpetuare lo stato di eccezione democratica, all’infinito o almeno per sette anni, oppure diventare il primo passo verso il ritorno alla normalità.
Il ritorno alla vitalità democratica ha bisogno di partiti nuovi. Quella massa di astenuti alle elezioni amministrative esprime una domanda che attende risposta, in vista delle elezioni politiche, un’offerta politica diversa, che oggi non c’è. Il Pd del Letta Mannaro, il mite segretario che appare pronto a sfoderare gli artigli, ha una responsabilità particolare. Enrico Letta si candida a essere il leader politico che segna la parte finale della legislatura, com’è stato Salvini nella prima parte e Renzi in quella di mezzo.
Draghi al Quirinale chiama con sé una nuova legge elettorale maggioritaria, con possibilità per il cittadino di scegliere eletti e maggioranze di governo, partiti rinnovati, con il ritorno del finanziamento pubblico sotto il controllo degli organi dello Stato, un governo politico che duri un’intera legislatura dopo il voto. Se Letta vuole diventare premier dopo il 2023 è questa la strada da costruire, non può tornare a Palazzo Chigi dieci anni dopo in base alle alchimie dei palazzi romani, come fu nel 2013. È l’azzardo che vale la sua segreteria.
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di Marco Damilano
espresso.repubblica.it
2021-10-22 07:36:00 ,