di Paolo Armelli
Dai singoli brani si passa alle colonne sonore, sempre più importanti per dare una precisa identità sonora a serie che devono catturare l’attenzione dello spettatore in una marea di concorrenti: si va da quelle super-coerenti ed evocative come in Stranger Things, dove la playlist anni Ottanta contribuisce a ricostruire il tessuto filologico dell’epoca, a quelle più stranianti, come la musica elettronica che accompagna anacronisticamente The Knick, grottesca serie medica ambientata nel primo Novecento. Nessuna scelta è casuale, comunque, e una delle parti più interessanti de La canzone nelle serie tv è proprio quella in cui si descrive la nascita di nuove figure professionali come quella del music supervisor.
Derivato in qualche modo dalla più generica figura del consulente musicale, il music supervisor “rappresenta uno degli snodi più rilevanti dell’intero processo produttivo di una serie, all’incrocio tra industria televisiva e industria musicale”, scrivono gli autori, perché deve selezionare brani che non siano semplicemente sottofondo o accompagnamento ma che contribuiscano a creare un’identità precisa della serie o a sottolineare anche tematicamente alcune scene o svolte narrative. Non a caso è un professionista che lavora a stretto contatto con lo showrunner.
La funzione della sigla
Un’ampia sezione di questo volume è poi dedicata alle sigle, la cui componente musicale è ancora una volta stratificata e atta a diverse funzioni: “La sigla è un contratto, una cambiale in bianco, un rischio, una membrana protettiva, ma allo stesso tempo permeabile, dalla quale il testo viene contemporaneamente avvolto ed assorbito, incorporato ed esibito”, si legge. E in effetti l’evoluzione delle sequenze d’apertura ci dice molto anche dei mutamenti del mercato televisivo: dai jingle orecchiabili (ma intercambiabili) dei telefilm storici fra anni Cinquanta e Ottanta, siamo arrivati oggi a delle specie di sigle-manifesto che sembrano avere una vita indipendente ma anche intimamente correlata con la serie che introducono.
Difficile non ricordare tormentoni ossessivi come I’ll Be There For You dei Rembrandts in apertura di Friends o I Don’t Want To Wait di Paula Cole prima di Dawson’s Creek (sigla dell’ultimo minuto tra l’altro, perché nata in sostituzione di un brano che Alanis Morissette decise di ritirare). C’è stata poi l’epoca del sound branding, ovvero di un tessuto musicale coerente che accumunava i titoli di uno stesso franchise come per esempio Csi, la cui serie principale e i cui spin-off si aprivano tutti con un brano dei The Who. Fino ad arrivare ai giorni nostri, con la prestige tv e i successi in streaming: da ultimo l’esempio di Cold Little Heart di Michael Kiwanuka, divenuto mainstream grazie a Big Little Lies.
Un’industria che cambia
Del resto come sostiene la studiosa Claudia Gorbman, citata nel libro, “la musica della televisione è come la musica sacra che ascoltiamo in chiesa: la viviamo in maniera intima, rende più profonda la funzione rituale della televisione e la creazione di una comunità”. Scandagliare le motivazioni profonde e diremmo emotive per cui alcune sigle o inserzioni musicali funzionano è complesso e al limite dell’impossibile. Ciò che è certo, come racconta anche La canzone nelle serie tv, è che qui non si tratta solo di arte ed emotività: qui si sta parlando soprattutto di industria. Come si sottolinea in questo saggio, in un’epoca in cui la fruizione musicale si fa sempre più astratta e parcellizzata, la televisione rimane saldamente un catalizzatore di attenzione e un enorme strumento di promozione.
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www.wired.it
2021-11-26 15:00:00