Intervista alla presidente della Rai: noi già un riferimento, RaiPlay ha 20 milioni di utenti. Occorre spostare risorse sul digitale e decentralizzare rispetto a Roma
«Questo autunno la tv tradizionale ha visto un calo di circa 2 milioni di contatti in media al giorno, rispetto a due anni fa. C’è bisogno di dirle altro sul perché dobbiamo smettere di continuare a dire che il mondo è cambiato e poi non fare nulla per cambiare anche noi?». Marinella Soldi ad appena un mese dall’approvazione del nuovo modello organizzativo della Rai sembra aver stampato il sorriso sul suo volto. Ma la sua voce fa trasparire quel giusto di serenità che sembra dire: so che il compito di cambiare per un’azienda che ha fatto nel bene e nel male la storia del Paese non è facile. Ma la Rai da azienda passione della politica deve tornare a essere quell’azienda che parla a tutto il Paese e non solo a una parte, e che lo accompagna nella sua evoluzione come ha fatto in passato. E infatti sorride ancora e aggiunge: «Quando è arrivata la chiamata sapevo di che cosa si trattava. E la tentazione di dire no, da persona cresciuta all’estero, in aziende dalla forte impronta multinazionale, era forte. Poi ti dici che è il momento di ridare qualcosa al Paese. E che si deve essere orgogliosi se qualcuno ha pensato a te».
E adesso è pentita?
«Pentita? E perché?».
Non è che non si siano sentite critiche sulle nomine, sul piano…
«Bisognerebbe preoccuparsi del contrario. Se ci fosse troppo silenzio. La verità è che basta entrarci in Rai per capire che può e deve essere protagonista della trasformazione digitale ed ecologica del Paese. Ma il cambiamento spaventa, bisogna aver visione, coraggio e pazienza».
Questo lo hanno detto in tanti prima.
«Appunto bisogna farlo e con l’amministratore delegato siamo convinti di provarci».
Esatto, e quindi?
«Partiamo da dove siamo. La Rai è tuttora considerata un riferimento: il pubblico dà un giudizio molto positivo — 8,35 su 10 — sulla capacità della programmazione Rai di fornire elementi di conoscenza e valutazione sul presente, apprezza del servizio pubblico la rappresentazione plurale della realtà. Raggiungiamo 30 milioni di italiani ogni giorno, oltre 20 milioni gli utenti registrati su RaiPlay, superiamo regolarmente i 10 milioni di spettatori con i grandi eventi da Sanremo allo sport, siamo capaci di generare fenomeni social e trasversali — pensiamo al Collegio —, coniugare cultura e audience con appuntamenti come la prima della Scala e la nostra capacità di copertura del pubblico non ha eguali in Italia».
Nessuno dice che la Rai non faccia nulla. Ma che ci sia a dir poco un’inerzia, una lentezza…
«E chi lo nega? Come tutte le aziende in questo momento, ma maggiormente per la nostra natura giuridica, abbiamo una sfida: avere una leadership e una gestione capace di un doppio sguardo. Da un lato rivolto all’immediato, per migliorarlo, producendo contenuti appetibili a costi competitivi e dall’altro rivolto al futuro, per essere rilevanti e centrali nei prossimi anni».
Sono ancora parole…
«Perché non rimangano solo parole abbiamo la responsabilità, con questo consiglio, di cambiare l’attuale assetto per metterlo al passo con i tempi. Il nuovo contratto di servizio 2023-27 rappresenta una grande opportunità, specie se collegata al nuovo piano industriale e, ci auguriamo, ai fondi del Pnrr: una triade importante e storica. Non si può investire nel nuovo e insieme lasciare intatto l’esistente: per questo dovremo compiere scelte, magari difficili, impopolari, ma non vedo alternativa. Il servizio pubblico è tale se parla a tutti i cittadini, non solo ad un pubblico più che maturo, come oggi».
Davvero pensa di convincere i nuovi italiani a guardare la Rai?
«Intanto non sono solo i nuovi italiani ma gli italiani. Dobbiamo rendere appetibili e disponibili i nostri contenuti lì dove sono gli utenti. Tv e radio restano centrali ma in fruizione tendenzialmente sempre meno lineare, senza un palinsesto prestabilito, sempre di più su smart tv. Sette milioni e mezzo di italiani guardano la tv tradizionale su internet, in aumento del 25% nell’ultimo anno ».
Ma servirebbe una flessibilità che la Rai non sembra avere.
«Se mi vuole dire che la Rai è un unicum a partire dalla sua complessa natura giuridica, ne sono consapevole. Ciò che ha reso vincente l’azienda nel passato: stabilità, avversione al rischio e gerarchia, oggi la mette in pericolo: serve agilità, flessibilità, capacità di innovare. Per quanto particolare e straordinaria e diversa da tutte le media company italiane, la Rai, il servizio pubblico, resta comunque un’azienda, non un ministero. E non può, non deve dimenticare di confrontarsi con il mercato».
Sì, ma concretamente?
«È evidente che tutto ciò significa riallocare le risorse, distribuendole diversamente tra offerta tradizionale e offerta digitale. Ma c’è bisogno di un cambio di atteggiamento, di cultura, di competenze. E bisogna anche scegliere bene su quali dati prendere poi decisioni: non crogiolarsi nelle celebrazioni di ciò che è stato».
In Europa ci si è mossi da un pezzo…
«I servizi pubblici europei sono alle prese con i nostri stessi problemi e sfide, ma sono più avanti: anche France Télévision ha fatto questo passo da qualche anno. Un mese fa ho partecipato ad un incontro con le 5 principali aziende europee di servizio pubblico: Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Italia. Mercati diversi, stessi temi: da quelli “esistenziali” (qual è il ruolo del servizio pubblico nella società di oggi e di domani), a quelli pratici, finanziamento, transizione digitale, età del pubblico, equilibrio tra centro e territorio, concorrenza di grandi player e tech americani».
Certo che se uno vede il sito della Bbc, o le sue piattaforme, fare paragoni non conviene…
«Ma si può imparare da chi, la maggior parte, ha già avviato un processo di cambiamento profondo. La trasformazione in servizio multimediale digitale e multipiattaforma non è rinviabile In questo ambito in azienda già si trovano eccellenze: RaiPlay, che sta riuscendo a conquistare i 15-24enni, ormai rappresentano quasi un quarto — il 23% — del suo pubblico. Oppure il Crits di Torino — il più grande centro di Ricerca e sviluppo in Europa dopo la Bbc!».
Ancora la Bbc…
«Sì, noi dobbiamo fare molto di più. Il nuovo modello organizzativo approvato all’unanimità lo dice chiaro: vanno fornite ai lavoratori nuove abilità e competenze, nuove piattaforme. Da reti lineari con potere e budget, a generi di contenuti da modulare a seconda del mezzo e dunque del target da raggiungere. Dovremo usare algoritmi creati con l’etica del servizio pubblico, un’etica che è ricchezza e tratto distintivo e che useremo anche quando in futuri saremo nel metaverso…».
Mi scusi, ma se appena avete provato a chiudere qualche edizione regionale dei tg per di più notturna vi hanno coperto di critiche e ultimatum.
«Cambiare non è facile per nessuno. L’editore della Rai, per legge, è il Parlamento, tramite la Commissione di vigilanza per l’indirizzo e controllo. L’attenzione della politica sulle sue vicende è costante. Ma non si deve temere un ridimensionamento dell’informazione territoriale. Anzi, Roma è anche troppo centrale negli equilibri di potere dell’azienda. Decentralizzare è un buon modo per ascoltare meglio dove va il mondo e il mercato, mettere a frutto competenze e potenzialità del territorio. Si deve uscire dalla nostra stessa echo chamber, dove ci si parla solo tra chi è d’accordo».
Altro che echo chamber, sulle nomine le critiche ci sono state eccome, a cominciare dal leader dei 5 Stelle, Conte.
«Con le ultime nomine abbiamo portato al vertice dell’informazione ottimi professionisti, tra cui tre donne. La questione femminile per me è questione di merito, più che di genere. Ma la gender equality ancora non è realtà, nel Paese, prima di tutto. In linea con la strategia nazionale, la Rai dunque può fare moltissimo per la parità di genere, con la sua programmazione E nella gestione aziendale. Se vogliamo essere rilevanti, inclusivi, sostenibili e credibili, dobbiamo iniziare a esserlo al nostro interno».
1 dicembre 2021 (modifica il 1 dicembre 2021 | 08:17)
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Daniele Manca , 2021-12-01 09:59:04
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