Iniziamo subito chiarendo un dubbio: ad Alice Pignagnoli il termine “portiera” non piace. “La portiera è quella della macchina, non credo che femminilizzando le parole si aggiunga legittimità ai ruoli. Anzi, nel calcio usare portiera è visto come un modo per discriminare il calcio femminile. Non mi piace, così come non mi piace ‘mammo’. La lingua racconta una storia e a seconda di quella storia va utilizzata”.
Alice Pignagnoli, la sua storia è un raro esempio virtuoso di un’emergenza che affligge il mondo delle atlete professioniste.
“In Italia le atlete non sono riconosciute come professioniste ed è proprio questo il cuore del problema. Lasciando alle singole società sportive il libero arbitrio nella gestione di situazioni come la gravidanza si possono trovare persone per bene, come è capitato a me, che credono nei valori dello sport e non solo nei risultati, o altri come quelli che purtroppo ha trovato di Lara Lugli“.
Cosa ha provato quando ha saputo di essere incinta?
“L’ho scoperto per puro caso a novembre 2019 – giocavo da luglio nel Cesena – dopo essere svenuta in campo in seguito a uno scontro di gioco. Ero già di sei settimane, l’ho comunicato alla società chiamando in lacrime la team manager Emanuela Vincenzi. Ero sotto shock: pensavo che dopo 25 anni non mi sarei più potuta allenare tutti i giorni e in più mi sentivo in colpa nei confronti delle compagne di squadra. La team manager mi disse di non piangere, che quello era un dono”.
Dal punto di vista contrattuale come è andata?
“La società chiese subito alla federazione cosa fare ma non esisteva un articolo nel contratto che prevedeva la maternità. In questi casi veniva risolto il contratto. La stessa cosa che mi aveva consigliato anche l’Associazione calciatori. E così fu, ma la società mi disse che quella non era la fine del rapporto ma solo una pausa per permettermi di rientrare quando sarei stata pronta. Mi chiesero di restare vicino alla squadra, anche a livello umano, e mi riconobbero tutti i rimborsi spesa per i viaggi e le trasferte. Poi a giugno, quando ero al settimo mese, arrivò il rinnovo del contratto alle stesse condizioni di prima della gravidanza”.
Una scelta inedita per il mondo dello sport italiano, cosa è successo dopo?
“Ho iniziato a immaginare che la mia carriera potesse non finire ma anzi che potessi prendere la rincorsa. Ho iniziato a lavorare quotidianamente per il mio rientro in campo. Mi sono sentita sempre parte della squadra e mai messa da parte. Eva è nata il 9 agosto con parto cesareo. Questo ha gettato nel panico tutto lo staff tecnico, compresa me”.
Perché, in che modo il tipo di parto poteva influenzare il suo futuro?
“Il team è tutto maschile e il pensiero in quel momento era che il taglio avrebbe complicato il mio ritorno considerando anche le prestazioni di un portiere. A quel punto la decisione di tenermi è vacillata, hanno iniziato a contattare un portiere straniero ma la team manager si è imposta: se avevano deciso di puntare su di me dovevano farlo fino in fondo, altrimenti si sarebbe licenziata. Ringrazio Emanuela Vincenzi, non a caso una donna”.
Aveva già pensato di diventare madre?
“Se avessi saputo che sarebbe andata così l’avrei fatto prima. Sono sposata dal 2016 con Luca Lionetti, calciatore nell’Eccellenza, e avevamo pensato spesso di fare un figlio. Purtroppo ci sono rari esempi di calciatrici madri e finisci per crescere con il valore che la gravidanza è la fine della carriera sportiva. Stessa cosa che accade anche fuori dallo sport. Mi scoraggiavano tutti, non solo per le conseguenze dal punto di vista fisico ma per quello che sarebbe stata la gestione della bambina”.
Si sente una pioniera?
“Non ci sono esempi di successo del percorso mamma e atleta. Sono orgogliosa perché quello che ha fatto il Cesena con me e quello che ho fatto io in campo dimostra, soprattutto alle giovani ragazze, che una nuova strada si può percorrere. Ci vuole un po’ di sacrificio proprio come fanno tante altre mamme tutti i giorni”.
Lei parla di senso di colpa e paura nel vivere la maternità, crede che questi sentimenti siano stati amplificati dal contesto sportivo nel quale vive?
“Ricordo, e un po’ me ne vergogno, che dopo dieci ore di travaglio la ginecologa mi disse che la bambina stava soffrendo a livello cardiaco e dovevamo tagliare. Erano le 6 del mattino, ero stravolta, ma le chiesi quante settimane in più avrei impiegato per tornare in campo. È brutto pensare che in quel momento il tuo primo pensiero non è tuo figlio ma tornare in campo. Sapevo che mi avevano rinnovato il contratto e mi sentivo in dovere di restituire loro la fiducia che mi avevano dimostrato. A cento giorni dal parto ho giocato contro il Milan, quando Eva aveva 7 mesi ero in campo da 4 mesi e mezzo ma mi sembrava poco. Nessuno lo aveva fatto prima di me e non sapevo se stavo facendo abbastanza”.
Cosa pensa del caso Lugli?
“Pensavo che storie come la mia dimostrassero che stiamo facendo passi avanti in un professionismo che dovrebbe diventare legge, poi testimonianze come quella di Lara Lugli ti fanno capire che non siamo mai abbastanza femministi e la strada da fare è ancora lunghissima”.
Cosa vuole dire per lei essere femminista?
“Tutti dovrebbero essere femministi, ovvero lottare finché uomo e donna non avranno le stesse condizioni. Se non sarà così ci perderemo tutti, gli uomini per primi, i nostri figli e le future generazioni”.
Cosa chiederebbe al Governo?
“Di rendere operative le promesse fatte ormai da tantissimi anni, su tutte quella di riconoscere il professionismo alle atlete. Ci darebbe la dignità minima che qualsiasi lavoratore dovrebbe avere. Dedico tutta la mia vita al pallone, dal gioco all’alimentazione, proprio come fa un uomo professionista e voglio poter lavorare e avere ferie, maternità, malattia, pari trattamento economico, i diritti minimi di qualsiasi lavoratore”.
Ci sono figure femminili alle quali si ispira?
“Sicuramente Alex Morgan, la calciatrice statunitense che ha partorito due mesi prima di me. E’ un esempio importante, ha combattuto con Nike affinché alle atlete durante la maternità non venissero sospese le sponsorizzazioni. Ora insieme ad altre sportive ha fondato un’agenzia di comunicazione dedicata allo sport femminile perché sui media i passaggi dedicati alle donne atlete sono un ventesimo rispetto a quelli degli uomini”.
Oggi si parla molto di sorellanza, ovvero di solidarietà tra donne. Com’è nel suo ambiente il rapporto con le altre atlete?
“Questo è un aspetto sul quale bisogna ancora lavorare molto e non solo nel mondo dello sport. Lottare insieme per un obiettivo comune dovrebbe aiutare la sorellanza, in realtà a livello culturale noi donne veniamo ancora messe in competizione sin da bambine. Quando capiremo che insieme siamo una forza potremo finalmente cambiare marcia”.
Cosa augura a sua figlia Eva?
“Di poter raccogliere i frutti del lavoro che ha fatto la mia generazione. Le auguro di poter essere quello che vorrà, non come me che sono stata ostacolata da bambina perché volevo fare la calciatrice. Se lei potrà vivere la sua aspirazione in maniera libera per me sarà il maggiore successo”.