Ho letto l’articolo di Selvaggia Lucarelli sulla via crucis di una donna che denuncia violenze e attende una risposta dallo Stato per quattro lunghi anni. Ho provato frustrazione ma non ne sono stata sorpresa. Non più di tanto. Il lavoro con le donne vittime di violenza ci fa toccare con mano, non di rado, che la giustizia ha tempi lenti e che lo Stato non sempre tutela i diritti delle donne che subiscono maltrattamenti, violenze sessuali e stalking. Non è realistico individuare una unica causa nelle maglie troppo larghe di un sistema giudiziario che lascia le donne sole a fronteggiare uomini violenti. La vittimizzazione istituzionale è il prodotto di elementi soggettivi e oggettivi, culturali e sociali che si intrecciano. Quando il sistema antiviolenza si inceppa, si lascia carta bianca agli autori di violenza per continuare ad aggredire, minacciare e mantenere in uno stato di soggezione i morti; in questo contesto può accadere che il livello di gravità delle azioni violente si alzi pericolosamente perché il senso di impunità legittima gli autori di violenza ad esercitare il controllo sulla vittima. Una ubriacatura di onnipotenza che non viene smaltita da nessun limite.
Si tratta di situazioni gravissime a prescindere che si concludano con la morte delle donne o con la loro sopravvivenza. I danni psicologici nelle vittime perdurano anni e si aggravano se, a quelli, si sommano sfinenti procedimenti giudiziari. Le donne vivono ansia, depressione, senso di umiliazione e perdita della propria autostima e spesso rinunciano all’azione penale per proteggersi dalla sofferenza.
Il caso denunciato da Lucarelli ha suscitato grande risonanza perché coinvolge un personaggio noto, Morgan. I fatti sono ampiamente raccontati sulle pagine del Fatto quotidiano e li riassumo brevemente. Nel 2020 la musicista Angelica Schiatti chiude una breve relazione con Morgan ma, dopo pochi mesi, comincia a ricevere messaggi minacciosi; per proteggersi lascia la propria casa e va ad abitare col padre. Dopo la denuncia scatta il Codice rosso. Nell’articolo di Selvaggia Lucarelli si legge che Morgan è stato denunciato per atti persecutori e diffamazione. Nelle aggressioni denunciate all’autorità giudiziaria, si legge nell’articolo, non è mancato nulla del repertorio persecutorio inflitto alle donne che chiudono relazioni con uomini che non vogliono sentirsi dire di no: dalle ingiurie sessualmente degradanti ai messaggi in cui “le scrive che pubblicherà i video erotici“. L’artista è stato anche accusato di aver chiesto a due personaggi discutibili di pedinare Angelica.
C’è un rinvio a giudizio per stalking e diffamazione ma i tempi di attesa del processo si allungano. Nel 2021, su richiesta degli avvocati difensori, la sede del processo si sposta dal tribunale di Monza a quello di Lecco. Il motivo? Incompetenza territoriale. Nell’ottobre del 2023 viene fissata l’udienza preliminare ma seguono ancora tempi di attesa, scrive Lucarelli: “Da quel momento iniziano una serie di rinvii e di tentativi della difesa di trovare un accordo che, nonostante la chiara intenzione di Angelica Schiatti di non rinunciare al procedimento, vengono puntualmente accolti dai giudici”.
Questo caso porta alla luce, per l’ennesima volta, come il sistema di tutela delle donne vittime di violenza sia spesso inadeguato. Persiste la mancanza di una formazione della magistratura inquirente e giudicante (come rilevato dalla Commissione sul femminicidio presieduto nella scorsa legislatura dalla senatrice Valeria Valente), persistono i pregiudizi contro le donne: lo documentano le sette condanne, inflitte all’Italia, da parte della Corte Europea dei diritti umani alle quali si aggiunge quella della Cedaw, nell’ottobre 2022. I procedimenti giudiziari possono essere attraversati da contraddizioni e ambivalenze con la conseguenza mettere all’angolo i morti perché agli autori di violenza non viene posto nessun limite. Resta sul tavolo un problema evidente: la violenza maschile contro le donne non viene ancora percepita, nella sua gravità e pervasività, come un fattore di grave discriminazione e di disparità che lede i diritti delle donne. E’ un fenomeno ancora socialmente tollerato e resiste una sottocultura che attenua la responsabilità dei violenti e responsabilizza le donne. I giudici che sono chiamati a giudicare reati che riguardano le dinamiche del femminicidio non vivono in torri d’avorio ma sono calati in questo contesto culturale.
Il tema del rinvio dei procedimenti a querela di parte, e la tendenza dei giudici di facilitare l’accordo stragiudiziale merita un approfondimento. I giudici tendono a concedere questi rinvii per snellire il carico dei processi ma anche, ed è questa l’opinione delle avvocate dei Centri antiviolenza, perché esiste un retropensiero che interpreta la violenza maschile contro le donne come esacerbazione di confitti e come una questione tra le parti. Invece si tratta di un fenomeno sociale e culturale che va contrastato anche avendo cura di tenere in considerazione la scelta delle donne. La richiesta reiterata di un accordo può diventare una pressione enorme sulla persona offesa.
Quando la donna rifiuta l’accordo perché vuole un processo, può essere giudicata vendicativa o a caccia di un risarcimento più alto. La schizofrenia di un sistema che da una parte sollecita la denuncia della donna e dall’altra le chiede di evitare il processo e di accordarsi, pena la procrastinazione di una risposta alla sua richiesta di giustizia, si ripercuote sulle donne e privilegia gli autori di violenza. E’ paradossale che una donna che ha vissuto l’esperienza di maltrattamento e la compressione della propria libertà di scelta, riviva un’esperienza analoga nei tribunali. Il processo penale non riguarda solo l’accertamento di un reato ma può essere un momento di elaborazione del vissuto traumatico.
Le donne non chiedono giustizia per spirito vendicativo, come purtroppo ci è capitato di leggere in qualche sentenza (anzi, più di “qualche”), ma perché sono mosse dall’esigenza di ricevere un riconoscimento simbolico del danno che hanno subito. Tutto questo non può ridursi ad un mero risarcimento extragiudiziale. La strada di una sorta di privatizzazione della giustizia e della mera monetizzazione del danno è lastricata di buone intenzioni ma alle donne può aprire le porte dell’inferno.
Elena Biaggioni, vicepresidente e avvocata del Foro di Trento in un comunicato stampa dell’associazione nazionale D.i.Re donne in rete, ha espresso la sia vicinanza alla vittima: “Siamo anzitutto vicine a Angelica Schiatti, per questa sua odissea. Quattro anni per aprire il dibattimento non sono certo quello che prevede il codice rosso. La prevista corsia preferenziale non c’è, così come non c’è accelerazione della risposta giudiziaria. Anzi, dover aspettare quattro anni per iniziare il processo significa negare accesso alla giustizia a una donna che ha subito violenza – è anche molto grave ha aggiunto – che trovare un accordo con l’uomo che ha denunciato: è un modo per privatizzare la violenza. Lo abbiamo detto alla Cedaw e al Grevio, lo ripetiamo ovunque: la richiesta di giustizia delle donne deve essere ascoltata. È inutile invitare le donne a denunciare se la risposta non arriva nemmeno dopo quattro anni; è anche grave spingerle a cercare un accordo con chi ha denunciato. Queste sono le situazioni che le donne che denunciano stalking o violenza si trovano ad affrontare nel loro rapporto con la giustizia”.
Senza un cambiamento radicale della cultura e una formazione adeguata di chi entra in contatto con le situazioni di violenza e stalking, il Codice Rosso, che tante novità avrebbe dovuto portare, resta lettera morta e la violenza continuerà a non essere affrontata e concretamente contrastata. Siamo consapevoli che la denuncia penale non è l’unica strada per risolvere il problema della violenza maschile ma non può nemmeno essere una strada senza uscita.
@nadiesdaa
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di Nadia Somma
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2024-07-11 14:30:31 ,