Armageddon Time e il trucco del regista James Gray per “infilare” Trump

Armageddon Time e il trucco del regista James Gray per “infilare” Trump

Armageddon Time e il trucco del regista James Gray per “infilare” Trump


di Enrica Brocardo

Paul, un ragazzino privilegiato nel senso più che altro di bianco – lui è convinto che la sua famiglia sia ricchissima ma, in realtà, il padre fa l’idraulico – e Johnny, un ragazzino nero, diventano migliori amici fra i banchi di scuola. Siamo negli anni Ottanta, nel Queens, un’epoca vicinissima eppure infinitamente remota, soprattutto se vista dalla prospettiva dei rapporti interrazziali a New York e nel resto dell’America.

L’ambientazione di Armageddon Time, presentato in concorso a Cannes, pesca nell’infanzia di James Gray, nato nel 1969 a New York. 

Il regista stesso ha ammesso di aver basato sui propri ricordi gli umori del suo ultimo film oltre che sul clima socio-politico dell’epoca: tra una guerra nucleare che sembrava una minaccia fin troppo reale, l’elezione di Ronald Reagan, l’omicidio di John Lennon e la sconfitta del mito afro-americano Muhammad Ali contro Larry Holmes (nel film, Paul ha appesa in camera una sua fotografia).

Ma tornando ai due giovani protagonisti del film, a unirli istintivamente è l’ingenuità di sognare nonostante tutto. 

Paul vuole diventare un artista anche se la famiglia ha su di lui aspettative ben diverse: trovarsi un lavoro serio, fare soldi, avere una bella abitazione, cose così. La madre (Anne Hathaway) e il padre sono liberal con moderazione. Lui inveisce contro Reagan in Tv (“Farà scoppiare una guerra atomica!”), lei cerca di rendersi utile come presidente della PTA, la Parent-Teacher Association della scuola pubblica alla quale ha iscritto il figlio Paul. 

Al tempo stesso, però, ha mandato il figlio più grande in un prestigioso istituto privato. Entrambi non si considerano razzisti, ma quando intravedono un ragazzino nero – in realtà Johnny che è venuto a cercare il suo amico – aggirarsi intorno alla abitazione, raccomandano ai figli di chiudere bene le porte.

Con queste premesse, è probabile che l’insofferenza di Paul alla famiglia e alle sue regole stia anche nell’inconscio rifiuto di un modello sociale. Un tipo di ipocrisia che non trova nel nonno (Antony Hopkins), un ebreo di origine ucraina la cui memoria delle persecuzioni subite è fresca abbastanza per fargli rifiutare ogni genere di discriminazione e ingiustizia.

Quanto a Johnny, la sua di famiglia praticamente non esiste. Vive con la nonna (che vediamo solo in una scena) vecchia, malata e distratta. A scuola, il professore lo prende di mira (chiaramente perché è nero), tutti danno per scontato che non sia molto intelligente e che, per tutte queste ragioni, il suo sia un destino segnato. 

Tutti tranne lui che non rinuncia a sognare un giorno di entrare alla Nasa, mentre rigira fra le mani alcuni adesivi ormai consunti di missili e astronauti. Ci crede finché può. Almeno fino a quando un ragazzo nero in metropolitana gli sbatte la verità in faccia (“Quelli come noi non li fanno manco entrare dalla porta di servizio”). La polizia, non molto dopo, farà il resto per toglierli ogni speranza.



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www.wired.it
2022-05-22 08:00:00

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