“Chi inserisce eventi storici in un’opera di intrattenimento ha delle responsabilità verso il pubblico. Quando stavo lavorando ad Assassin’s Creed seguivo una regola d’oro, che ancora oggi rispetto: la regola dei 30 secondi. Se bastano 30 secondi per controllare un’informazione su internet, su Wikipedia, allora non ci sono scuse, bisogna essere accurati”. Patrice Désilets è l’deatore di Assassin’s Creed, una delle saghe di videogiochi più celebri e di maggior successo in circolazione.
Direttore creativo di Assassin’s Creed, Assassin’s Creed II e Assassin’s Creed: Brotherhood, ha lasciato la casa editrice Ubisoft Montreal al picco del successo, per fondare lo studio Panache Digital Games, con il quale ha pubblicato il survival game Ancestors: The humanity odyssey. Alla Milan Games Week ci ha raccontato come nasca un kolossal come Assassin’s Creed. E perché il realismo sia importante in un videogioco ad ambientazione storica.
“Per i nostri designer stato bellissimo raffigurare il Ponte di Rialto in Assassin’s Creed II: un luogo iconico di Venezia, che tutti conoscono. Ma nel 1492, all’epoca di Ezio, era un ponte di legno, non esisteva la struttura in pietra. Sono bastati trenta secondi per trovare questa informazione. Poi certo, la storia è piena di bugie, di invenzioni, sono sempre i vincitori che scrivono i resoconti, e quindi c’è spazio per giocare, per divertirsi. Ma bisogna provare a essere accurati”.
Come nasce un videogioco come Assassin’s Creed?
“Io dico sempre che non so come fare un videogioco, e la gente pensa che io mi schernisca, che voglia evitare di rispondere. In realtà, semplicemente, intendo che non c’è una ricetta segreta. La cosa più importante è il soggetto, il tema. Quando ho iniziato a lavorare al primo Assassin’s Creed, per lungo tempo sarebbe dovuto essere un nuovo capitolo nella serie di Prince of Persia. Avevo appena terminato Sands of Time e da Ubisoft mi avevano chiesto di realizzare un sequel. Non ero sicuro di volerlo fare, perché alla fine un principe non è un buon eroe per un gioco d’azione, è semplicemente qualcuno che deve diventare re, quindi bisogna inventarsi una scusa per trasformarlo in un protagonista. Il fantasy non era così interessante all’epoca, e così mi sono messo a ricercare un setting storico”.
Come si è passati da Prince of Persia ad Assassin’s Creed?
“Ho letto molto, avevo un libro sulle società segrete, raccontava delle sette degli hashishin in Iran e Persia, e c’era anche un mito di un vecchio santone chiedeva ai propri seguaci di buttarsi dalla cima di una montagna per provare la loro devozione. Così ho pensato che il famoso Principe potesse essere un membro di quella setta. All’inizio non era Assassin’s Creed, ma Prince of Persia: Assassins. Poi, lavorandoci sopra, abbiamo capito di avere per le mani qualcosa di più grande”.
Qual è l’ispirazione per gli elementi più celebri di Assassin’s Creed? L’Animus e la lama nascosta?
“Ritorniamo a Prince of Persia, che era un racconto in stile Mille e una Notte. Lì c’è Sherazade che racconta delle storie, nel gioco l’escamotage narrativo era quello di un vecchio principe che racconta la storia della propria giovinezza a Farah. Una sera stavo guardando un documentario in tv sul dna Allora mi sono chiesto: e se ci fossero delle memorie registrate nel nostro dna, e una macchina potesse leggerle? Così è nato l’Animus. In Ubisoft hanno pensato che fosse una grande idea. Hanno detto: è fantastico, così potremo farci sopra una serie di giochi. Avevano già visto il franchise, prima di me. Per la lama nascosta… non ricordo proprio come sia nata l’idea. Probabilmente da un brainstorming. Ma ricordo bene che quando stavamo lavorando al sequel io scherzando dicevo: oh, Assassin’s Creed II, allora raddoppiamo le lame, doppia lama, doppio divertimento. Io ridevo, pensando fosse così di cattivo gusto! Ma tutti mi hanno preso sul serio, e alla fine…”.
“Senti, ho preso la decisione di lasciare la serie, e sono a posto così. Ho provato a giocare ai nuovi giochi, ma per me era un lavoro, non un divertimento. Continuavo a esaminarli nell’ottica del creative director, e a pensare come li avrei fatti io. Ma so quanto sia difficile creare questi giochi. Quanto sudore, quanta passione, quanta fatica ci voglia per creare un episodio di Assassin’s Creed. E rispetto l’impegno dei team creativi”.
E il film invece?
“Quello, onestamente, era un po’ un casino. A parte l’Animus. l’Animus era fantastico, l’ho visto e ho detto: sì, accidenti, è proprio così che deve essere”.
Se dovesse scegliere un’ambientazione per un nuovo Assassin’s Creed, quale sarebbe?
“Prima di andarmene, avevo lavorato per pochissime settimane ad Assassin’s Creed III, e una porzione sarebbe stata ambientata a Montreal, in Canada, la mia città. Il primo cambiamento che hanno apportato quando me ne sono andato è stato trasferire quella parte a Boston”.
Dicono che il 2023 sia stato un ottimo anno per i giochi, un pessimo anno per l’industria dei videogame, tra licenziamenti e decisioni discutibili dei management. C’è aria di crisi?
“Diciamo che si sente lo stress. La pandemia è stata ottima per i videogame: tutti erano chiusi in casa a giocare. Oggi quei numeri non si fanno più, e molti si comportano come se i soldi fossero spariti, si chiedono come replicare gli utili degli anni scorsi. Ma in realtà è stato il periodo del Covid a essere fuori dal normale, e non il contrario”.
Quali prospettive vede per l’AI e la VR nei videogame?
“L’AI? Cambierà tutte le nostre vite. Sta già accadendo. Ma è imprevedibile. La verità è che nessuno sa cosa accadrà. Mentre per la VR, beh, io soffro di mal d’auto, quindi per me è escluso. Ma in generale ti isola troppo dagli altri, non puoi giocare e tenere d’occhio i figli, rispondere al telefono, mettere in pausa e aprire la porta. Quando indossi un visore, sei da un’altra parte e stop. E questo per me è un grande limite della tecnologia, più che un vantaggio”.
A cosa sta giocando oggi?
“Civilization, lo gioco anche troppo. It takes 2 con la mia nuova fidanzata, quello è un gioco che vorrei aver creato io, è eccezionale. Starfield, troppo grande, dopo un po’ ho smesso, e poi lavoro nel settore, lo so che non è vero che tutte le missioni sono straordinarie. E Diablo 4… sì, ci sono caduto dentro in pieno”.
Per finire, prossimi progetti?
“Il mio prossimo progetto con Panache è in lavorazione ed è top-secret, non ne posso parlare. Guardando al futuro, se dovessi descrivere quello che mi piacerebbe fare… e che penso proprio che prima o poi farò… sono giochi brevi. Esperienze di due ore. Le giochi, sono super-intense, e finiscono. L’idea è sempre quella di raccontare delle storie vere, viste però da una prospettiva personale più che storica. Mio padre è un sopravvissuto del terremoto di Port au Prince, ad Haiti. È sopravvissuto perché era in Hotel e aveva deciso di andare al bar del primo piano a bere con degli amici, anziché salire in camera al quinto piano. Alle 16:52, mio padre stava bevendo al bar. Alle 16:53, Port au Prince non c’era più. L’Hotel era crollato. Due ore dopo, mio padre era all’ambasciata canadese. In quell’intervallo di tempo c’è una storia da raccontare. Con un videogioco”.
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di Andrea Curiat www.wired.it 2023-11-28 05:50:00 ,