Tim Burton arrivò in un momento molto particolare, in cui la pop couture stava trionfando ma allo stesso tempo aveva bisogno di rinnovarsi. Quegli iconici anni ‘80 erano stati caratterizzati da una doppia faccia. Da una parte il trionfo dei film di formazione con il Brat Pack, della commedia dissacrante, dall’altro l’action testosteronico e il mito del benessere e del successo. Erano però stati anni in cui la fantascienza e horror avevano trovato un terreno fertilissimo, in cui grandi registi avevano offerto grandi metafore sull’uomo e la società, anche al costo di pagarne il prezzo al botteghino. Ma nessuno aveva ancora concepito una rappresentazione così grottesca e comica della morte e dell’aldilà, in grado di porsi come perfetto ponte tra il piccolo schermo di quegli anni, con le telenovelas e le sitcom, e la gloriosa tradizione dell’horror, che proprio in quel periodo subiva una profonda mutazione. Una mutazione che Beetlejuice decise di abbracciare come tema portante dell’iter, che di base decostruiva i cardini del genere ad ogni occasione.
Beetlejuice a guardarlo ancora oggi infatti non può che far pensare ad una sorta di deformazione non solo della cinematografia che John Carpenter, David Cronenberg, Yuzna, Tobe Hooper o Mark Lester avevano proposto al pubblico americano nel corso degli anni. Il body horror era diventato una sorta di metafora della mostruosa schiavitù verso l’estetica, aveva dominato, così come la rinnovata narrazione su un’ipotetico altrove con film come Poltergeist o Cimitero Vivente.
A dispetto degli anni poi, il cinema soprannaturale, quello connesso ad esorcismi e presenze demoniache e compagnia bella, da l’Esorcista in poi si era sedimentato nell’immaginario collettivo e fu proprio basandosi su tale mix, che Tim Burton trovò la chiave del successo.
Il pubblico ebbe in dote un film incredibilmente familiare ma anche innovativo, in particolare nella sua rappresentazione della morte, che veniva totalmente desacralizzata.
Un grande inno al caos e alla diversità
Michael Keaton non era un volto particolarmente noto, aveva all’attivo un paio di interpretazioni per Ron Howard. Anche lui, come diversi altri degli interpreti, arrivò come una sorta di scelta di ripiego, una scelta che però si rivelò determinante. Fu un Beetlejuice semplicemente straordinario. Tim Burton amava (e ama ancora oggi) i reietti, i diversi dalla norma, i non allineati, quelli che come lui erano sempre stati messi in una posizione tale da considerarsi dei freak. Nessuna sorpresa quindi che di fronte alle gesta di questo esorcista sporcaccione, falso, mentitore, Burton alla fin fine non sia mai riuscito a renderlo una vera nemesi, quanto piuttosto una sorta di divinità e simbolo di un caos vitale. Se villain come Pennywise, Freddy Krueger e altri “colleghi” erano diventati nuovi dominatori dell’incubo, Keaton sembrava più che altro una trasfigurazione della loro semantica. Doppiogiochista, istrionico, riportava in auge una mimica e un’espressività che parevano scomparse dai tempi del cinema muto, connettendosi alla stand up comedy, e all’ironia slapstick.
Se Keaton ancora oggi è uno dei personaggi più iconici del cinema di Burton, tanto da anticipare come sarebbero stati molti dei suoi villain (su tutti il Joker di Nicholson), con la fusione di follia, risate e oscurità, anche Winona Ryder giocò un ruolo fondamentale. In lei risplendeva una visione dell’adolescenza molto diversa da quella che in quegli anni il cinema ci proponeva.
La sua Lydia è sola, incompresa, ma non così vulnerabile come sembra, né così impressionabile. Sarà la sola a riuscire a comunicare con i due coniugi defunti, a spingere per una coesistenza e una normalizzazione dei rapporti tra i due lati del mondo reale. Solo lei, pare dire Tim Burton, ha la flessibilità per accogliere il diverso, proprio perché lei stessa lo è, con quella carnagione pallida, il trucco deformante, i colori neri che la rendono in realtà, come tipico nel cinema di Burton, più una sacerdotessa dell’occulto che ad una banale gothic girl.
Ma se Beetlejuice è ancora oggi un cult tra i più amati degli anni ’80, è per come ci nutre di un humor dissacrante, irresistibile, quasi fantozziano nel mostrare che neppure dopo la morte, si riesce ad avere quella libertà ed equità a cui tutti aneliamo. Burton ci mostra un aldilà in cui permane la burocrazia, regole stringenti, stress e il sentirsi bene o male dei numeri privi di significato. Tantissime le scene irresistibili, con battute al fulmicotone che assieme al muoversi irriverente dello Spiritello Porcello, sono il sale di un racconto che metteva alla berlina il materialismo della società americana di quegli anni. Beetlejuice bene o male infatti si fa beffe della classe media, dell’omologazione di cui si fanno carico i Deetz, così come i Maitland, capaci solo di fissarsi sulle cose e non sui sentimenti, sull’importanza della condivisione. Il tutto con una sfilza di personaggi che paiono usciti da un Halloween ad alto tasso alcolico.
Il film di Tim Burton avrebbe guadagnato qualcosa come 80 milioni di dollari, sarebbe arrivato come un piccolo terremoto dentro il cinema delle major, che recepirono la necessità di una maggior flessibilità. Beetlejuice avrebbe soprattutto lanciato l’ultima, vera, grande corsa della pop culture cinematografica, di cui questo grande regista, questo narratore visionario, sarebbe stato un alfiere impareggiabile. Burton si fece portatore di un profondo rinnovamento del genere horror, connettendolo alla volontà di andare oltre i soliti schemi fissi, di portare a un rovesciamento totale di prospettiva. Sono passati 35 anni da allora. Questo istrionico regista da almeno un decennio non è più riuscito a stupire, forse anche perché noi tutti ai sogni, ai suoi racconti a metà tra fiaba e spavento, non possiamo più credere. Eppure, Beetlejuice risulta ancora oggi bellissimo ed il suo successo avrebbe poi aperto la strada a Batman, Edward mani di forbice, che ci hanno reso capaci di guardare con tenerezza all’oscurità.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-03-30 08:00:00 ,