È un film molto serio come il suo protagonista, mai ammiccante, mai furbo, mai retorico. Segre, da esperto documentarista, anche nella finzione mira più approfondire che a sorprendere. Allo stesso modo la performance del cast, tutto, è straordinariamente misurata, equilibrata, verosimile, da Roberto Citran nei vestiti di Moro a Pierpaolo Pierobon in quelli di Andreotti, da Francesco Acquaroli che interpreta Pietro Ingrao a Giorgio Tirabassi che fa Alberto Menichelli, senza dimenticare Fabrizia Sacchi nei vestiti di Nilde Iotti. Non vediamo maschere, né caricature, ma esseri umani. Germano stesso lavora in furto, non c’è traccia di imitazione o artificio posticcio nel suo Berlinguer. La naturalezza interpretativa è sostenuta dal fatto che l’attore fa proprie le sue battute anche fuori dal film, ci crede profondamente e questa convinzione arriva dritta allo spettatore contagiandogli quella passione per la politica che negli anni è andata scomparendo. Così come l’attenzione concreta alla vita dei lavoratori, il senso di responsabilità e di adesione a più alti ideali (di qui il rifiuto di trattare con i terroristi, le Brigate Rosse), la convinzione che il confronto con chi ha opinioni diverse sia sempre «proficuo», la partecipazione attiva alla vita pubblica, dalle fabbriche alle Feste dell’Unità: Elio Germano interpreta tutto questo, suscitando in chi guarda una gran dose di nostalgia.
Non c’è solo il militante, c’è anche l’uomo, il padre, il figlio, il marito che si scusa per le sue mancanze. Inteneriscono gli scorci sulla vita familiare di Berlinguer, gli scambi di battute tra salotto e cucina con i figli e la moglie (Elena Radonicich) sia sulla quotidianità che sulla politica, le gite in barca e al parco, la sua ossessione “materna” per il latte, la analisi di una banconota data per dispersa. Certo, il militante prende spesso il sopravvento sull’uomo, la passione politica lo insegue fino alla fine: Segre ci risparmia l’ultimo comizio e la conseguente dipartita, in compenso esibizione l’amore che i più avevano per Berlinguer e per tutto quello in cui credeva e incoraggiava gli altri a credere. La grande ambizione, appunto: “usualmente si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo”, diceva Gramsci.