di Emilio Cozzi
Sono gli stati d’animo garantiti dall’apparecchio Penfield, l’organo degli umori, un generatore elettrochimico di sensazioni tanto efficace da essere (diventato) l’interfaccia obbligatoria per tutto il genere umano. Almeno quello, e sono solo gli scampoli, rimasto sulla Terra, un pianeta agonizzante, lacerato e corroso da una guerra atomica di cui nessuno ricorda più motivi ed esito, ma di cui tutti conoscono le conseguenze – “i primi a morire furono i gufi” svelerà l’androide Rachel qualche pagina dopo. È una Terra in cui ogni cosa testimonia quanto gli errori dell’Uomo pesino: dal fuggi fuggi delle persone sane, le uniche ammesse alle colonie extraterrestri, agli animali finti, di cui è bene essere provvisti per dimostrarsi amorevoli.
Non è un caso che, come ogni altra sensazione, lo stimolatore Penfield fornisca anche l’accesso al lato mistico dell’Umano, una visione condivisa e partecipata in cui il nuovo profeta dell’empatia, il dio catodico Wilbur Mercer, invita a provare il suo dolore mentre, salendo una collina, lo lapidano.
La chiave è tutta lì: nell’empatia. La capacità di sentire qualcosa con e per gli altri. Di percepirne il fremito, la gioia o il trambusto di vivere. Siano pure, gli altri, pecore elettriche.
È un talento, chiamiamolo così, estraneo a chi sia fatto di circuiti, cavi e valvole. Tipo gli androidi, per dire, e a prescindere da quanto avanzati siano. Vedi il modello Nexus-6.
Per questo, e solo per questo, a loro dà la caccia Rick Deckard, il bounty hunter rimasto sulla Terra con pochissimi altri, fra cui la moglie Iran, che sembra detestarlo quando non gli è indifferente: il lavoro di Deckard consiste nel ripulire ciò che rimane del mondo da quegli oggetti antropomorfi, quei manichini del tutto identici all’uomo, salvo che per l’incapacità di sentire l’altro da sé.
È un cacciatore di androidi, lui. E loro subumani al cui confronto sono meglio anche le “teste di gallina”, le persone cui le radiazioni, la polvere e chissà cos’altro hanno offeso il cervello per sempre.
La chiave di Ma gli androidi…, si diceva, è tutta lì.
Eppure in Blade Runner sembra non essercene traccia.
Nella trasposizione cinematografica del 1982, Ridley Scott e la giostra di sceneggiatori alternatisi prima di arrivare alle immagini, quella da cui Dick venne tenuto ben alla larga, il Penfield non lo menzionano mai. A farne le veci rimane il ben noto Voight Kampff, il test per misurare la reattività emotiva dei presunti replicanti – non androidi, si annoti. Ma è un far le veci parziale. Meglio, è un cambio di prospettiva che, se da una parte conserva una delle intuizioni più potenti dell’opera scritta, quella contiguità fra umano, artefatto e coscienza su cui Dick ha sempre invitato a riflettere, dall’altra ne ribalta il senso.
Source link
www.wired.it
2022-06-25 05:00:00