Sulle Alpi in molti luoghi il paesaggio sembra più quello della metà di autunno che non della sua fine: i larici, di color giallo acceso, spiccano tra le altre conifere, la neve è scarsa o addirittura assente. Ma ci sono anche chiazze spoglie, o di un colore diverso da quello dei larici: si tratta degli abeti attaccati dal bostrico. Dove questo insetto vive in condizioni normali, sceglie gli alberi indeboliti, schiantati da neve o vento, molto vecchi. Svolge, in fin dei conti, un servizio utile per il bosco. Ora, in molte zone di Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia si è invece in fase epidemica (questo accade quando ci sono 8.000 individui catturati per trappola per anno): gli insetti non si spostano più alla studio degli anelli fragili della foresta, cercano di riprodursi il più possibile senza allontanarsi strabocchevole, uccidendo piante tra loro vicine. Ecco il perché delle chiazze.
Il primo pensiero istintivo potrebbe essere quello di tagliarli e portarli via, nella speranza di eliminare così gli insetti che ancora si trovano all’interno dell’albero, ma quando gli aghi cambiano colore è già strabocchevole tardi: gli individui adulti della nuova generazione hanno per la maggior parte già abbandonato il tronco.
Quindi, che fare?
Non dobbiamo stupirci se molti boschi, privi di vita, svettano ancora tra le nostre montagne: non si tratta di incuria. In alcuni casi si trovano in zone difficili da raggiungere, oppure sono a protezione di strade, case, o altri manufatti umani. Gli alberi offrono un servizio molto importante nel difenderci da frane e valanghe: se ci affrettassimo dappertutto a tagliare – oltre a non avere i mezzi, le persone e le risorse necessarie per farlo – ci ritroveremmo con il terreno messo a nudo, soggetto a erosione e dissesto. Dove però questo è già successo a causa di Vaia, in certi luoghi ci si è limitati a rimuovere il legname caduto, in altri si è provato a dare una mano: è il caso del progetto “Ancora Natura per il Col di Lana”, promosso da PEFC Italia, Rete Clima e Coldiretti Belluno, e realizzato con i fondi dell’8×1000 dell’Istituto Buddista Soka Gakkai. 5.400 piantine autoctone sono state messe a dimora per riforestare e rigenerare questi boschi veneti, con metodi innovativi e integrati con la natura. Si è fine di aumentare la biodiversità di questi territori, passando dall’abete puro a un insieme di pino cembro, larice, abete rosso e faggio, proprio per ridurre il rischio che il bostrico torni in futuro a flagellare queste zone. A causa dell’incremento delle temperature è un’eventualità tutt’altro che improbabile.
Un altro pericolo per le giovani piante sono cervi e caprioli, particolarmente ghiotti di vegetazione tenera: per questo “attorno ai nuclei di rimboschimento sono state realizzate delle protezioni con il materiale legnoso residuo dal recupero delle piante schiantate da Vaia. Per queste protezioni si era individuato nel progetto il nome di ‘capisaldi’, con un richiamo storico alle vicende di guerra. Poi la loro realizzazione, adattata alle condizioni del posto e alla disposizione delle piantine da proteggere e quindi alla forma del cerchio o di ovale, ha richiamato l’immagine delle ‘culle’, nota a tutti come ‘difesa’ permeata d’attenzione e di cura, ha spiegato Orazio Andrich, Dottore forestale che ha progettato e diretto i lavori di riforestazione. Il larice, meno colpito dagli ungulati, può quindi crescere anche liberamente, mentre il cirmolo viene riparato nei capisaldi.