La parola d’ordine a Largo del Nazareno è quella di non rispondere più alle provocazioni di Carlo Calenda: «Ora avanti con il programma e con i nostri temi». Le ferite lasciate sulla carne del Pd dallo strappo del leader di Azione – che domenica in diretta tv ha stracciato il patto elettorale sottoscritto appena cinque giorni prima assieme al segretario dem Enrico Letta e a quello di Più Europa Benedetto Della Vedova con l’argomentazione che nella coalizione sono entrati anche gli “antidraghiani” Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) e Angelo Bonelli (Europa Verde) – saranno curate alla fine della campagna elettorale. E sono già in molti, soprattutto nella minoranza di Base riformista, a puntare il dito contro Letta per la conduzione della trattativa e a prevedere un drammatico redde rationem a urne chiuse.
Ma ora il tempo stringe: nel fine settimana la direzione del Pd approverà il programma del partito, mentre già oggi – dopo la conferma del patto sottoscritto con il Pd da parte della direzione di Più Europa – dovrebbe esserci un nuovo incontro di Letta con Della Vedova, Emma Bonino e Riccardo Magi per ridefinire la quota dei collegi uninominali dopo lo strappo di Calenda: la ripartizione 70\30, senza più Azione, andrà rivista a favore del Pd, e cadrà anche il veto calendiano alla candidatura di ex 5 Stelle nei collegi uninominali. O almeno così spera Luigi Di Maio, che ha presentato con il centrista Bruno Tabacci la lista Impegno civico accettando il rischio di non superare la soglia del 3%.
Le polemiche tuttavia non finiscono. Se Calenda in tv ribadisce ancora la sua versione («Letta ha firmato un patto con noi, che diceva una cosa, e poi un altro patto con altre forze che dicono l’opposto. E lo avevo avvertito per tempo che in questo modo non era possibile presentarsi in modo coeso»), gli ex compagni di Più Europa danno una versione diversa («ci sembra che Letta abbia rispettato il patto, dal momento che era noto a tutti che aveva intese anche con Fratoianni, Bonelli, Di Maio e Tabacci»).
Al di là delle polemiche, Calenda ha ora un problema pratico non di poco conto: la divisione con i Radicali di Più Europa lo priva dell’esenzione dalla raccolta delle firme per poter presentare il simbolo entro le ore 16 del 14 agosto. Un’impresa improba, in pochi giorni e con molti certificatori in vacanza, anche per partiti più strutturati e radicati sul territorio di Azione: normalmente si devono presentare dalle 1.550 alle 2mila firme per ognuno dei collegi plurinominali; quest’anno, visto che la legislatura è finita in anticipo, il numero minimo di sottoscrizioni è dimezzato. Considerando che dopo il taglio del numero dei parlamentari le circoscrizioni alla Camera sono 245, per ognuna di esse vanno dunque raccolte almeno 750 firme. In tutto 36.750 per la Camera e 19.500 per il Senato dove le circoscrizioni sono più grandi. Dal quartiere generale di Azione fanno trapelare ottimismo: «I segnali sono buoni, la raccolta partirà nelle prossime ore».
In realtà sembra che Calenda punti all’esenzione da parte del Parlamento europeo, dove è entrato nel 2019 come eletto nelle liste del Pd, perché nel logo del Pd c’era la “sua” scritta Siamo europei. Ma come scrive in pagina Francesco Clementi, Siamo europei non era un contrassegno autonomamente registato. L’unica strada alternativa alla raccolta delle firme sembra essere quella di una convergenza con Italia viva di Matteo Renzi, a cui si è unito nei giorni scorsi anche l’ex sindaco di Parma Federico Pizzarotti, per la formazione di una lista “draghiana” che sia il Terzo polo centrista tanto evocato. Ma Calenda in privato frena, e assicura che non ci sono incontri con Renzi in vista nelle prossime ore. Eppure l’ex premier lascia la porta aperta. La convinzione in dimora renziana è che «la rottura tra Calenda e il Pd rimuova definitivamente il tema del voto utile e che quindi ci siano le condizioni per fare un grande risultato. Lasciamo che Azione si chiarisca le idee».