Dev’essere stato quel pinguino. “Avevo quattro anni, ero in visita all’acquario di Trieste e lui mi diede un morso”. Il mal d’Antartide è venuto forse così a Carlo Barbante, 60 anni, lo scienziato che sa leggere nel ghiaccio il passato del pianeta.
Da trent’anni fa il pendolare tra il Polo Nord e il Polo Sud, con tappe all’università di Venezia in cui insegna chimica e dove dirige l’Istituto di scienze polari del Cnr. “E’ come il mal d’Africa” descrive. “Ma mentre in quel caso a entrarti dentro è il pieno della vita, in Antartide è il vuoto a colpirti. Ti senti piccolo. Ritrovi il tuo posto nell’enorme Terra che ti circonda”.
Ai poli Barbante va con una missione precisa: estrarre carote di ghiaccio. “All’inizio quando lo raccontavo restavano tutti in silenzio. Si chiedevano cosa facessi. Oggi con la crisi del clima il mio lavoro è diventato più familiare. Il ghiaccio profondo e antico conserva infatti la memoria del clima del passato”. Estraendo carote, cioè lunghi cilindri del diametro di 10 centimetri, si percorre a ritroso la storia del nostro pianeta. Lì ci sono bolle di gas, polveri e sostanze chimiche rimaste intatte per millenni. C’è l’aria respirata dai primi Neanderthal e dai mammuth dell’era glaciale. Analizzarla è importante perché, mai come nello studio del clima, “nel nostro futuro c’è molto del nostro passato”. E’ la frase con cui si apre il libro di Barbante Scritto nel ghiaccio.
Qual è il messaggio più importante che avete letto nel ghiaccio?
“La conferma che più anidride carbonica c’è nell’atmosfera, più la temperatura della Terra aumenta. Nessuno scienziato ormai, con questi dati in mano, dubita che il riscaldamento climatico esista e sia causato dai combustibili fossili. Le nostre carote estratte ai poli ci riportano indietro di 800mila anni. In questo lasso di tempo le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera sono oscillate tra 180 e 280 parti per milione. Poi nel giro di poco più di cento anni siamo arrivati a 420. L’aumento di temperatura di 1,3 gradi che misuriamo oggi è solo l’inizio di una traiettoria che non ci fa prevedere nulla di buono”.
Cosa succederà?
“La Terra troverà un nuovo equilibrio e ci sopravviverà. Saremo noi a pagare il prezzo della nostra mancanza di rispetto. Pretendiamo di essere i protagonisti sul pianeta. In realtà siamo solo ospiti, e non so nemmeno quanto graditi”.
Come sono cambiati i Poli rispetto alla sua prima missione nel 1993?
“Sono andato al Polo Nord di recente – intendo a 90 gradi nord, il Polo esatto – e intorno a noi c’era mare, con qualche blocco di ghiaccio. Trent’anni fa una rompighiaccio doveva faticare con tre o quattro metri di ghiaccio compatto”.
Perché stentiamo a prenderne coscienza?
“Conta la generazione cui apparteniamo. Noi siamo i primi a toccare con mano il cambiamento. Siamo testimoni viventi, eppure stentiamo a renderci conto di quanto siano preoccupati i giovani. Raccontavo le mie esperienze ai Poli a una classe di liceo, un giorno, quando una ragazza è scoppiata a piangere sul banco. I nostri figli e nipoti troveranno la soluzione. Intanto però gli stiamo scaricando sulle spalle un problema ciclopico. E’ una questione generazionale, non dovremmo permetterci di farlo”.
Come è finito a lavorare in Antartide?
“Con un episodio alla sliding doors. Ero un brillante laureato in chimica industriale con il posto di lavoro già assegnato al petrolchimico di Ferrara. Sarei andato a produrre nuove forme di plastica per una multinazionale. Nel frattempo però c’era il servizio militare. Poiché sono nato a Feltre, con la caserma degli alpini di fronte a casa, feci domanda per essere assegnato lì. Fui accolto negli alpini, sì, ma a marciare in cima alle Alpi in Valle d’Aosta. Nel nostro campo capitò un giorno un gruppo di scienziati. Dovevano addestrarsi per una missione in Antartide. Presi il loro indirizzo, di ritorno ad Aosta imbucai una lettera per uno dei responsabili e mi dimenticai di tutto. Stavo già sbuffando scontento sul mio polipropilene a Ferrara quando mi offrirono di partire. E lì esplose il mal d’Antartide”.
Ha ritrovato i suoi amici pinguini?
“Eccome, spesso quando lavoriamo nel campo sul mare congelato si avvicina una pattuglia in esplorazione. Arrivano in fila indiana, curiosano un po’ e poi se ne tornano indietro, tranquillizzati. Le foche sono meno discrete. Capitava di dover forare il ghiaccio per calare degli strumenti in mare. Loro schizzavano su dal buco come siluri e atterravano sull’attrezzatura. Quanti danni”.
Ricordi indelebili del continente bianco?
“In Antartide non si resta mai da soli per ragioni di sicurezza. Una volta però ci fu un’emergenza e il mio compagno di lavoro, medico, fu portato via in elicottero. Mi ritrovai solo, sperduto, ma allo stesso tempo completamente libero. In quel momento tutti i problemi si resettano. La paura scompare. Le cose materiali perdono importanza. Sei totalmente parte della natura, e basta”.
Ci sono altri messaggi che il ghiaccio ha in serbo per noi?
“I colleghi hanno appena completato la campagna di carotaggio di quest’anno in Antartide. Siamo arrivati a 1.037 metri di profondità con il progetto europeo Beyond Epica. Vogliamo raggiungere i 2.800. Ci servirà almeno un altro anno per risalire indietro di un milione e mezzo di anni. Oggi il limite delle nostre conoscenze è 800mila anni, ma c’è un’epoca importante che si chiama transizione del pleistocene medio, circa 900mila anni fa. Qui le oscillazioni dell’anidride carbonica e i cambiamenti del clima sono stati molto importanti. E guarda caso proprio in questa epoca i paleoantropologi che indagano i resti umani fossili hanno trovato grossi segni di crisi. L’umanità si è ritrovata in un collo di bottiglia, solo pochi dei nostri antenati sono sopravvissuti. Il ghiaccio può farci capire se all’origine di questa quasi estinzione ci siano i cambiamenti climatici”.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2024-01-28 18:52:30 ,www.repubblica.it