di Gianluca Dotti
Ginevra – Mentre in queste settimane al Cern sta progressivamente avvenendo la riaccensione dell’acceleratore Large Hadron Collider (Lhc) per il terzo round di esperimenti della sua storia (il cosiddetto Lhc Run 3), in molti degli edifici che compongono il centro di ricerca si sta già guardando oltre. Nel 2026 ci sarà infatti un nuovo spegnimento generale, lungo due anni e mezzo o forse tre, al termine del quale Lhc avrà una capacità ancora migliore di indagare nell’infinitamente piccolo e di osservare l’affascinante “zoo” di particelle elementari.
Questa volta non si tratterà di un potenziamento in termini di energia negli scontri tra protoni – pure a quello si lavora già, più a lungo termine – ma di un miglioramento della luminosità dell’esperimento. In sostanza una volta concluso questo upgrade, nella parte finale degli anni Venti, si potranno avere scontri tra particelle più frequenti, quindi un numero maggiore di eventi interessanti da studiare e una statistica più solida su cui basarsi. Una miglioria che porterà anche il nome stesso Lhc a cambiare, facendolo diventare l’High Luminosity Lhc, o Hllhc in un acronimo unico.
Per Wired siamo entrati nel sito di ricerca svizzero del Cern, e all’interno di uno dei giganteschi edifici che sorgono proprio sulla linea di confine tra Svizzera e Francia abbiamo dato un’occhiata al cuore della tecnologia che permetterà di migliorare le performance dell’acceleratore: i magneti. Oggi a fare da collo di bottiglia in termini di luminosità degli esperimenti – ha raccontato Amalia Ballarino, che è a capo del gruppo di magneti, superconduttori e criostati del Cern – è la larghezza dei fasci di protoni che a velocità prossime a quella della luce percorrono più e più volte i 27 chilometri dell’anello sotterraneo dell’acceleratore, e che scontrandosi danno origine a quelle particelle elementari di cui si vogliono scoprire sempre più proprietà e dettagli.
A cavallo di un fascio di protoni
Conviene forse fare un piccolo passo indietro. Immaginiamo di essere a bordo di uno dei 10mila miliardi di protoni che formano uno dei grappoli (bunch, all’inglese) di particelle che viaggiano all’interno dell’anello. Dopo essere stati sospinti a una già folle velocità lungo una sorta di corsia di accelerazione rettilinea, inizieremmo a muoverci nel percorso anulare, in un ambiente mantenuto a una temperatura appena un paio di gradi sopra lo zero assoluto (-271°C), curvati di continuo da oltre 1.200 potentissimi magneti, alternati a una serie di cavità a radiofrequenza che ritmicamente danno delle spintarelle utili a mantenere una velocità costante.
Idealmente, tutto il grappolo di protoni dovrebbe mantenersi largo appena un nanometro (un milionesimo di millimetro): una sfida resa complessa dalle grandi distanze percorse, dall’elevatissima velocità e dal fatto che – tra loro – i protoni tendono a respingersi. Per questo motivo lungo l’anello sono posizionati 64 magneti speciali (tecnicamente, dei quadrupoli magnetici) che non sono deputati a fare curvare i protoni lungo la traiettoria circolare ma a focalizzare il fascio, attraverso una sorta di effetto-lente. Più il fascio è compresso e più collisioni avremo quando li mandiamo uno contro l’altro, un po’ come se due stormi di uccelli stessero viaggiando in rotta di collisione: se gli uccelli sono ravvicinati tra loro si generano più scontri. Insomma, tornando ai protoni, più il fascio è stretto e più il risultato ottenuto è interessante da studiare.
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2022-04-06 05:00:00