Chang a Canestro dovete vederlo: lo diciamo a voi adulti, anche a voi fratelli o sorelle maggiori. Vi farà capire moltissimo del circo impazzito dentro cui vive la Generazione Z, quella di cui tutti parlano ma che nessuno capisce e soprattutto nessuno descrive nel modo giusto, né al cinema né in televisione. Invece questo film in arrivo su Disney+ è uno dei migliori degli ultimi anni per farci capire il caos valoriale, lo stress, le incertezze e la dittatura dell’immagine che ne domina la quotidianità. Tra basket e i social, mezzo per inseguire il mito del successo e l’individualismo spinto, Jingyi Shao firma una piccola perla che merita ogni tipo di plauso e complimento.
Un ragazzo perso nel dentro un canestro
Chang a Canestro ci fa conoscere lui, Chang (Bloom Li) un ragazzino come tanti in America, dominato in modo assoluto da una passione spasmodica per il basket, nonché per il suo idolo, Kobe Bryant. Nel mezzo del classico periodo di trasformazione fisica e psicologica di ogni 16enne, Chang ha però la sensazione di non trovare la sua strada, ma soprattutto di non essere compreso dalla madre Chen (Mardi Ma), con cui vive dopo il divorzio dei genitori, un’infermiera chi si fa in quattro per non fargli mancare nulla, ma verso la quale il dialogo è quasi totalmente assente. Chang sogna di essere popolare nella sua Cresthill School, un po’ come succede con Matt (Chase Liefeld) che conosce fin dai tempi delle elementari, e del quale invidia carisma, bellezza, successo e naturalmente il fatto di essere considerato il giocatore più forte della scuola. la rivalità tra i due conosce un incremento per la nuova arrivata, Kristy (Zoe Renee).
Kristy non è solo molto carina e sicura di sé, ma è anche una musicista di prim’ordine e ovviamente attira le attenzioni di tutti e due. Chang per incassare credito agli occhi di Kristy, decide di sfidare Matt: se riuscirà entro un mese a schiacciare a canestro come fa lui, quest’ultimo non solo dovrà dargli una maglia firmata di Kobe Bryant, ma dovrà anche farsi rasare a zero la testa in pubblico. Per riuscire nel suo intento, Chang coinvolge il suo migliore amico Bo (Ben Wang), abilissimo con i social media, nonché l’ex giocatore professionista e preparatore DeAndre (Dexter Darden). Ben presto il ragazzo scoprirà molto presto, che dei sogni è lastricata la via che porta a grandi delusioni e a non riconoscersi più allo specchio, visto che vincere non è importante: è l’unica cosa che conta. Ma quell’unica svolta da inseguire significa anche non guardare in faccia niente e nessuno, neppure chi diciamo di amare.
Chang a Canestro affascina fin dal primo minuto, per il fatto che riesca ad unire in sé il film di formazione nel senso più classico del termine, con una perfetta disamina dalla Generazione Z dei nostri giorni. Apparentemente domina il classico tema del ragazzo che cerca di superare le proprie paure, conquistare la ragazza del cuore e sconfiggere il proprio rivale a scuola. Si tratta di qualcosa che abbiamo visto fin dai tempi di Karate Kid direte, ed infatti ecco rispuntare anche la narrativa dell’allenamento come trasformazione di se stessi, il voler avere un’occasione per essere qualcosa di più di uno dei tanti. Un elemento che Rocky nel 1976 ha innalzato a totem culturale transgenerazionale e non solo in America. Messa così pare qualcosa di molto funzionale ma non particolarmente innovativo, invece Chang a Canestro fa un’inversione ad U totale, mette completamente da parte la prevedibilità e alla fine ci guida verso un iter diegetico in cui proprio il tema della vittoria a tutti i costi, dell’essere dei vincenti, del voler attirare l’attenzione e diventare grandi protagonisti, viene distrutta mattone dopo mattone.
Chang ha il fisico esile e il volto espressivo Bloom Li, che non ha nessuna delle caratteristiche tipiche di un ragazzo che può essere popolare: non è bello, non ha spalle possenti, non ha neppure l’aria da ragazzo incazzato col mondo. Eppure proprio la sua aria normale, lo rende il protagonista perfetto per un film che è molto meno leggero e anche molto meno romanzato di quanto si possa pensare. Questo grazie alla sceneggiatura di Shao che sa come far evolvere i personaggi e farci cambiare il nostro punto di vista su di loro. Dai tempi di Porky’s e Spiderman, fino ad American Pie e Kick Ass, il ragazzo timido e emarginato da tutti che si prende la ribalta è uno dei sogni più ricorrenti sul piccolo e grande schermo. Ma davvero è un sogno che merita di essere così tanto considerato? Chang a Canestro, con quella metafora della schiacciata canestro alla Michael Jordan, da metà in poi comincia a farci capire che il nemico della gioventù moderna, è proprio questa necessità di essere sempre al centro dell’attenzione, di conformarsi. Questo a causa anche di una società in cui tutti cercano non più i 15 minuti di cui parlava Andy Warhol, ma anche solo 15 secondi su Instagram, con cui sentirsi realizzati.
Facendo a pezzi il sogno di vincere sempre
Il film parla dell’identità personale, che oggi dipende 100mila volte di più rispetto al passato da ciò che ci dicono gli altri, dai loro feedback digitali, dalle visualizzazioni, ed in questo Chang a Canestro diventa anche una sorta di documentario sulla nascita e il successo dei fenomeni social, Sono quelli che fanno diventare per qualche istante delle celebrità persone impegnate in uno storytelling tutt’altro che sorprendente. Chang è uno di loro, fa vedere quanto è disposto ad allenarsi pur di toccare quel canestro, che per lui è il simbolo della fama e della considerazione da cui dipende la sua autostima. Altro elemento incredibilmente positivo, è come il film ci doni una difficile relazione madre e figlio, scevra sia dalle esagerazioni più fini a se stesse, sia da una visione edulcorata in generale. Chang e Chen per tre quarti del film parlano sostanzialmente una lingua diversa e le loro interazioni sono un perfetto simbolo di incomunicabilità generazionale, di una conflittualità ritratta in modo perfettamente plausibile e reale. Merce rara oggi, cinematograficamente parlando.
Perché la realtà, e basta rifletterci per capire che è vero, è che il cinema, la televisione, hanno sempre cercato di dipingerci quell’età come fantastica, con la sua verde gioventù proiettata al domani, la scoperta di noi stessi, del nostro corpo assieme ad una immancabile spensieratezza. Ma per molti, sia ieri che oggi, avere 16 anni è stata sovente la parte peggiore della propria esistenza, un buco nero fatto di solitudine e mancanza di gioia. Qualcosa che recentemente serie come Euphoria, così come da noi un prodotto molto interessante come Prisma, hanno illuminato di una luce più ambiziosa e forse per certi versi un po’ narcisista, per quanto notevole. Chang a Canestro invece pare scritto realmente da un ragazzo di oggi, uno di quelli che non sa chi è, non sa cosa vuole, sa solo che deve essere adesso. La cosa più scioccante? Il mondo degli adulti appare qui come una radicalizzazione di questa visione solitaria, consumistica ed egoista della vita.
Chang è un simbolo generazionale, con la sua timidezza, la sua aggressività nascosta dietro sorrisi imbarazzati, il suo egoismo e la mancanza di empatia che si manifestano nel momento in cui pensa di aver raggiunto tutto quello che gli serve. Il film è ben distante da una visione manichea della vita, raccoglie il testimone di una serie come Cobra Kai, nel farci comprendere che anche nel nostro grande racconto della vita, la realtà è che non esistono buoni o cattivi, ma solo punti di vista. Chang e Matt non sono poi così diversi l’uno dall’altro, ognuno ha i suoi problemi, ognuno ha le sue insicurezze che nasconde come può, soprattutto su ciò che riguarda la proiezione di sé all’esterno. Chang a Canestro infine ci illumina anche sulla parte più malsana della cultura sportiva americana, di cui ancora oggi sono succubi gran parte delle minoranze che hanno meno accesso e possibilità dal punto di vista formativo. Sono quelle risultano da decenni nutrite culturalmente dalla convinzione che essere uno sportivo professionista, uno dei giganti dell’NBA o dell’NFL o magari un artista famoso, sia l’unica, vera, possibilità, l’unico sogno che vale la pena inseguire.
Chang a Canestro è uno di quei piccoli, grandi film che una volta definivano semanticamente una generazione e che oggi abbondano nella quantità ma non nella qualità. Nessuno recentemente ha saputo essere così pieno di quotidiana e verità, senza cedere alla tentazione dell’esasperazione o dell’eccesso. Perché fare un grande film di formazione, poi quasi sempre significa fare anche un grande film sulla vita. Chang infatti imparerà che da solo non è nulla, ma che è da solo che devi imparare a risolvere i suoi problemi, senza vedere negli altri per forza una minaccia o un premio. Un film questo, capace però di insegnare molto anche gli adulti: su tutto, l’importanza di ricordarsi cosa significava avere 16 anni e assieme ciò che questa età comporta nel mondo di oggi. Perché tutti abbiamo subito la pressione dall’esterno che cercava di dirci come dovevamo essere, ma nessuna generazione prima della Z ha subito una narrazione così tiranneggiante prima d’ora.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-03-10 05:20:00 ,