L’ironia è pressoché scomparsa dalla politica contemporanea. Da tempo, ormai, e in un modo che appare quasi definitivo. Nonostante le ideologie siano finite in soffitta, nonostante i leader si sentano tutti in confidenza tra loro, e con i loro cari, nonostante i social media invitino (anche troppo) alla facezia, nonostante le alleanze e le combinazioni vadano e vengano, e dunque non contemplino barriere insuperabili, nonostante tutto questo il dibattito si nutre o della pesantezza dell’antagonismo o del grigiore dell’ufficialità. C’è la vanagloria, oppure la contumelia – e niente nel mezzo. Non c’è mai un sorriso, neppure rivolto a se stessi. Nessuna risata seppellisce il potere, nessun risolino lo rende meno cupo. Manca del tutto quel senso lieve della distinzione politica che consiste nel colpire ma senza esagerare, nel mettere alla berlina senza arrivare all’insulto, nell’alludere senza infierire, insomma nel parlar contro adoperando però almeno un briciolo di grazia.
Non c’è più traccia di Churchill che prende in giro il suo antagonista Attlee («Una macchina arriva al numero 10 di Downing Street, si apre la portiera, non scende nessuno. È arrivato il primo ministro»). Né di Andreotti che prende di mira con arguzia un certo spirito troppo esageratamente volitivo di Fanfani e di Craxi. Né di Reagan che prende per il bavero se stesso per la sua età fattasi ormai veneranda. Per non dire dell’umorismo salace di Pajetta verso gli avversari democristiani e di quello più raffinato, ma non meno affilato, di Fortebraccio, lo storico corsivista dell’Unità. Tutta gente che sapeva fronteggiare la drammaticità dei tempi con quel tanto di humour che poteva servire a farvi da contrappeso.
Il discorso pubblico del nostro tempo non contempla più nulla di tutto questo. Si nutre di proclami e di dileggi, che vogliono essere tutti tremendamente seri, privi di ogni sapidità, perentori sia in quel che dicono che in quel che negano. Alterna il suono mellifluo del politically correct al rullo di tamburi della propaganda più dozzinale. Fa ricorso a una gran quantità di linguaggi, immagini, posture, metafore. A cui però quasi sempre manca il registro della spiritosaggine, della sfottò leggero, dell’irriverenza. Dell’ironia, appunto.
Destre e sinistre, leader di governo e di opposizione, notabili di lungo corso e influencer freschi di indignazione sono tutti stranamente accomunati da una fondamentale mancanza di spirito, tutti propensi a prendersi molto, molto, molto sul serio, tutti ugualmente alieni dal gusto della battuta, dell’argomento lieve, del motto di spirito.
Cosa c’è dietro tutto questo? Si dirà che i tempi sono difficili, e non autorizzano a mostrarsi troppo spiritosi. O che il comandamento della comunicazione incalzante impone di non mollare mai la presa. O anche che non c’è più nessun Churchill, né un suo emulo, ad animare le baruffe politiche con il suo spirito beffardo. Tutto vero. Ma solo in parte. Il fatto è che l’ironia, per chi la pratica, è una visione, un modo di interpretare il mondo – e anche la politica. Prendendosi sul serio, ma non troppo. Litigando, ma non ferocemente. Provando gusto nel diverbio. Sentendosi abbastanza sicuri delle proprie ragioni da esporsi anche all’ironia altrui.
In una parola, l’ironia è una filosofia politica che rimanda a una visione del mondo che da un po’ di tempo – troppo – manca all’appello. Nel suo piccolo, anche questa mancanza contribuisce a farci sconfinare verso territori dominati ormai da un sentimento di tristezza e resi sterili dalla seriosa pesantezza con cui si pretende di governarli.
Personalmente non credo che tutti i leader che alimentano la disputa politica da dentro o da fuori si prendano così drammaticamente sul serio come mostrano di credere. Né che prendano così altrettanto drammaticamente sul serio i loro conflitti e le loro divergenze. Sembrano piuttosto prigionieri di una posa, costretti a recitare il ruolo di dispensatori di certezze e qualche volta di contumelie.
Che qualcuno li liberi, possibilmente.