Giovane, innovativa, digitale e smart. Così si presenta la società per cui lavora Cristina. Benefit per i dipendenti come convenzioni con ristoranti e la palestra, eventi di gruppo – cene, gite, attività sportive – organizzati per rafforzare la cooperazione e la coesione tra i lavoratori «ma poi non esiste un vero e proprio piano per il welfare aziendale. – racconta Cristina amareggiata – Non abbiamo flessibilità sugli orari di lavoro, è impossibile tornare a abitazione prima di cena, non sono previsti sostegni alla famiglia, né per la cura dei bambini, né per l’assistenza agli anziani. Le iniziative promosse per accrescere il benessere della società non sono il frutto di una strategia condivisa con i dipendenti ma il risultato di quanto il direttore, uomo, crede possa essere piacevole per tutti».
La cosa che più fa innervosire Cristina, però, è un’altra: la sensazione di essere trattata come un oggetto, perché è donna. Nessuna molestia esplicita, non ci sono stati episodi di violenza fisica chiaramente circoscrivili. Si tratta di quel costante chiacchiericcio che sente alle spalle. Le risatine, i mormorii, i commenti e le sconfittine a doppio senso continue: ogni volta che si alza dalla scrivania, che fa un break per prendere il caffè, che partecipa ai meeting con i colleghi. Sono comportamenti che sembrano lievi, leggeri, facili da soprassedere ma che, giorno dopo giorno, stanno rendendo pesanti le ore lavorative. «Ho scoperto che ci sono delle chat, a cui partecipa anche il capo, in cui i colleghi, uomini, commentano le caratteristiche fisiche di tutte le donne dell’azienda, come ci vestiamo e come ci comportiamo. Quando c’è meno lavoro da fare, nei momenti più liberi, vengono anche organizzati dei veri e propri contest “Chi ha le chiappe più belle?, Chi il seno più grande? Chi accende maggiormente la tua energia sessuale?”. Una classifica a punti in cui le donne diventano oggetti da valutare asetticamente, di nascosto, per fare quattro risate e spezzare la routine. «Un clima simile a quello che avevo in classe alle scuole medie». Cristina è stanca di sopportare questa situazione di cui tutti sono al corrente ma che nessuno prova a interrompere.
Anche nell’azienda in cui lavorava Angelica il clima era simile, soprattutto quando andavano in visita i dirigenti da Roma e Milano. «Alle impiegate veniva chiesto di mettersi le minigonne e scodinzolare davanti a loro, “Mi raccomando domani vestitevi in modo consono” ci ordinavano». Un giorno Angelica ha chiesto spiegazioni, «in che senso?» ha detto, almeno per rompere l’ambiguità su cui giocava il suo superiore. Per spingerlo ad assumersi le responsabilità di una richiesta insensata. «Vogliono che tu metta la gonna, corta sarebbe meglio». Lei ha risposto che i suoi abiti in lana pura, maglione e pantaloni, sarebbero andati benissimo. Costosi, eleganti, adatti per l’ambiente di lavoro, con cui si sarebbe sentita a suo agio. Non solo per questo ma anche perché sapeva che era buona pratica dei dirigenti «avere rapporti sessuali con le impiegate che non rifiutavano» Angelica ha cambiato lavoro alla scadenza del contratto.
Secondo il 3° Rapporto dell’”Osservatorio mercato del lavoro e competenze manageriali”, presentato a fine 2020 dall’associazione 4.Manager, solo il 18% delle donne, in Italia, ha un contratto da dirigente, percentuale che negli ultimi 10 anni è cresciuta appena, dello 0,3 %. Ed è proprio nei ruoli manageriali che emergono le maggiori differenze di retribuzione di genere. Le donne, già prima dell’emergenza sanitaria, guadagnavano in media il 16 % in meno all’ora rispetto agli uomini, per la combinazione di diversi fattori tra cui che la maggior parte delle donne lavora in settori in cui gli stipendi sono più bassi, come istruzione e assistenza, e la minore presenza in ruoli apicali.
Per Rita Chiesa, professoressa di psicologia del lavoro all’Università di Bologna, esistono due tipi di barriere che interferiscono nello sviluppo professionale di una donna: interne, cioè stereotipi di genere assimilati che fanno sì che le bambine, fin da piccole, siano portate a interessarsi all’assistenza e alla cura della persona. E barriere esterne cioè i preconcetti di chi seleziona il personale che, frequentemente, è convinto che le donne non siano adatte alle posizioni di leadership, modellate su una definizione di competitività tipicamente maschile. «In più – spiega la professoressa – in molti casi interviene anche il giudizio morale. Ci sono studi che testimoniano come le donne non vengano selezionate solo per le loro competenze e abilità specifiche ma anche per la loro attitudine alla collaborazione, molto più degli uomini, e per il modo di vestire».
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di Chiara Sgreccia
espresso.repubblica.it
2021-12-10 14:27:00 ,