Il leader M5S giura ai big di aver fatto tutto il possibile e ora chiede aiuto per la campagna elettorale
«Per favore, tu comunque dammi una mano in campagna elettorale». Ci sono tanti modi per mostrare la propria debolezza. Uno è senz’altro quello di chiedere aiuto alle persone che hai appena ucciso, politicamente parlando, si intende. E infatti i parlamentari in uscita che hanno sentito Giuseppe Conte chiudere in questo modo la sua telefonata piena di «ci ho provato a fargli cambiare idea», «non è colpa mia», «ti giuro che ce l’ho messa tutta», hanno pensato quello che ora pensano in molti, dentro e fuori il Movimento Cinque Stelle. È tutto finito.
La nascita di una simil lista Conte senza i contiani è tutto quel che resta di un mese cominciato con una scissione
motivata con la politica estera
ma in realtà generata dalla consapevolezza che non ci sarebbe stata alcuna deroga, proseguito facendo cadere un governo che almeno in via ufficiale non si aveva intenzione di far cadere, e terminata con questo nuovo capolavoro all’incontrario. «Tradire i propri uomini per salvare sé stesso» come dice in modo più colorito un ormai ex parlamentare di un certo peso.
Alla fine, si tratta sempre della cara vecchia questione umana, oltre che di incapacità politica, come sottolineano molti epurati che speravano nel celebre «mandato zero» inventato proprio dal reprobo Luigi Di Maio come ultima spiaggia. Lo hanno pregato in ginocchio, tutti. Non basta qualche sms, lo sai come è fatto Beppe, prendi l’aereo e vai in Sardegna. Devi coccolartelo, devi finalmente farlo sentire importante, e ti porti a abitazione questa ennesima deroga all’anima dei vecchi 5 Stelle. In fondo che ci vuole, dopo che Grillo ha già ingoiato anche la recente sconfessione del «mai soldi ai partiti» che fu la linea del Piave di Gianroberto Casaleggio con il tentativo di gennaio, per altro anch’esso fallito, di accedere al 2 per mille con le dichiarazioni dei redditi dei cittadini.
Ma lui, niente. Ogni ego è grande a mamma sua. Conte non si è mai mosso dal Gargano, dalla vacanza al mare per la quale è partito dopo aver fatto cadere un governo a sua insaputa, anche questa una scelta che ha destato perplessità nei gruppi parlamentari. La villeggiatura, non il siluro a Mario Draghi, si capisce. E qui si ritorna indietro di un anno esatto, a quella singolare fiera dell’incomunicabilità che sancì l’ingresso dell’ex presidente del Consiglio in abitazione d’altri, con il proprietario che prima aveva definito il nuovo affittuario «senza visione, autore di uno statuto secentesco», e poi aveva cambiato idea all’improvviso. A farlo tornare sui suoi passi era stata la ribellione dei tre membri del Comitato di garanzia, organismo che secondo le vecchie regole di fatto certificava le opinioni espresse da garante, altrimenti detto l’Elevato.
A Roberta Lombardi, Vito Crimi e Giancarlo Cancellieri l’aveva giurata da quel giorno. Si era sentito tradito, obbligato ad avallare una scelta che non ha mai smesso di sentire come un innesto innaturale. Nell’abborracciato accordo del luglio 2021 c’era anche il superamento della regola del secondo mandato, ma il Grillo ferito nell’orgoglio ha sempre avuto altre intenzioni. Sapeva che si sarebbe arrivati alla resa dei conti. Sarà stanco, sarà ormai nauseato dallo spettacolo che in qualche modo porta anche il suo nome, ma non ha resistito alla tentazione di mostrare ai suoi ex fedelissimi, che tutto gli dovevano, chi comanda sulle spoglie del Movimento Cinque Stelle. Il proprietario del simbolo è lui, avrebbe pur sempre potuto ritirarlo.
Anche l’avvocato del popolo ha sempre saputo della spada di Damocle che pendeva sulla sua testa. Eppure, ha dilazionato, ha fatto vaghe promesse e caute affermazioni in senso contrario. Chi aveva orecchie per comprendere aveva capito tutto dopo l’abituale capitombolo alle Amministrative, quando Conte fece una surreale conferenza stampa per caldeggiare la deroga a Cancellieri per le primarie di coalizione siciliane, dicendo che sulla questione del doppio mandato avrebbe fatto votare la base, ma che lui non avrebbe espresso una opinione e comunque era contro i politici di professione. Da allora, è apparso chiaro che Grillo avrebbe vinto su tutta la linea.
Poco importa che si giunga al paradosso della mancata ricandidatura della terza carica dello Stato, quel Roberto Fico per il quale Grillo ha più volte detto di provare affetto e stima, di quella Paola Taverna che è stata l’architrave del consenso di Conte nel gruppo del Senato, dell’esperto di allunaggi Carlo Sibilia, tutte figure dal relativo peso elettorale che però rappresentano un pezzo di vita del Movimento. Prima grillini oggi contiani. La necessità della riaffermazione del proprio io, il rancore verso i tre triumviri dai quali si è sentito tradito un anno fa, la costante sensazione di essere tenuto ai margini della sua creatura, che in psicanalisi si chiama sindrome del beneficiario irriconoscente, hanno portato Grillo a usare l’arma totale del mondo pentastellato.
E così, in un inevitabile concorso di colpe, è stato fatto il male definitivo al Movimento. Oggi chi vota M5S lo fa per Conte. Ma voterà un leader che non ha saputo proteggere chi ha lavorato per accreditarlo come tale, da corpo estraneo che era. E che sarà obbligato a continuare un matrimonio di convenienza che si regge solo sulla reciproca debolezza, circondato da una nuova classe dirigente di perfetti sconosciuti. Un matrimonio nel quale l’unica cosa chiara è chi è il più debole tra i due sposi forzati.
29 luglio 2022 (modifica il 30 luglio 2022 | 09:59)
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Marco Imarisio , 2022-07-30 08:08:52 ,