di Angela Watercutter
L’anno scorso in questo periodo, Tabitha Jackson si stava preparando a dirigere il suo primo Sundance Film Festival [il più grande e importante festival di cinema indipendente degli Stati Uniti, Ndr]- che era anche il primo Sundance organizzato nel mezzo di una pandemia globale. A causa di Covid-19, l’edizione del 2021 si è tenuta completamente online, e ogni film, sessione di domande e risposte e gruppo di discussione con i registi è stato trasmesso in streaming. All’epoca si trattava un esperimento, mi aveva raccontato Jackson, non tanto un progetto per il futuro del festival, quanto “un’opportunità per raccogliere prove su quello che vorremmo vedere“. Questo mese, Jackson ha messo in pratica quello che ha imparato l’anno scorso. Mentre i piani per il 2022 andavano in direzione di un festival ibrido, un po’ virtuale è un po’ dal vivo, è arrivato il picco di casi della variante Omicron. Anche quest’anno, il Sundance avrebbe avuto un’edizione totalmente virtuale.
Questa volta, però, Jackson e i suoi collaboratori erano preparati. Dopo il festival online dell’anno scorso, sapevano cosa fare. E mentre programmavano il festival di quest’anno in modalità ibrida, hanno scoperto che la maggior parte dei meccanismi per il passaggio allo streaming erano già pronti. Alla serata di apertura dell’evento, il 20 gennaio, è filato tutto liscio. Durante il festival, i film saranno trasmessi in streaming , le sessioni di domande e risposte si svolgeranno via Zoom, mentre i partecipanti interessati all’aspetto più sociale del festival potranno ritrovarsi all’interno dello Spaceship, un hub virtuale (resisteremo alla tentazione di definirlo “in stile metaverso”) dedicato alle conversazioni a margine delle proiezioni (e che è possibile visitare con la realtà virtuale). “La nostra salvezza sono state le piattaforme online – ha raccontato Jackson parlando del cambio di programma dell’ultimo momento –. Il grande lato positivo è che abbiamo potuto fare un festival di cui essere comunque entusiasti”.
La pandemia ha sconvolto l’intero settore degli eventi, dai concerti ai congressi, dalle premiazioni fino alle produzioni di Broadway. Ma nel caso dei festival del cinema, l’ecosistema del settore di cui fanno parte stava attraversando un’enorme trasformazione già da prima che il coronavirus colpisse. In passato, in un festival cinematografico venivano proiettate decine di film indipendenti e le grandi case di produzione presenti compravano le migliori pellicole per poi distribuirle nelle sale cinematografiche di tutto il mondo. Intorno al 2016, la prassi ha iniziato a cambiare. Tutto ad un tratto, Netflix e Amazon hanno iniziato a presentarsi ai festival forti dei loro fondi apparentemente illimitati, per accaparrarsi i film che riscontravano maggior successo a cifre da capogiro e renderli poi disponibili sui loro servizi di streaming, magari facendoli uscire anche in una manciata di sale per questioni di prestigio, o nel caso volessero spingere la loro candidatura agli Oscar. Ma ora che i film proiettati ai festival potrebbero comunque passare il weekend di apertura proiettati sullo schermo degli iPhone, ha importanza se i festival che li hanno presentati si sono svolti virtualmente?
Sì, e no. Da una parte, il rapporto del pubblico con i film sta mutando. Oggi gli spettatori sono piuttosto a loro agio nell’usare multiplex e home theater in modo intercambiabile. Ma allo stesso tempo sta cambiando anche la relazione dei registi con le persone che fruiscono del loro lavoro. Registi come Denis Villeneuve e Christopher Nolan possono, comprensibilmente, spingere a gran voce affinché i loro film vengano visti nelle sale. Ma questi cineasti sono in una posizione ben diversa rispetto ai registi indipendenti che vogliono solo che qualcuno veda i loro film. I festival garantiscono loro un modo per farlo, ma quando si svolgono online i registi perdono l’opportunità di vedere la reazione in tempo reale degli spettatori, di avere il polso della sala.
Shari Frilot riflette molto su questo aspetto. Frilot cura il programma New Frontier del Sundance da quindici anni e lo ha visto passare da poche performance interattive e progetti di realtà virtuale a elemento fondamentale del festival. Lo Spaceship esiste in gran parte perché Frilot voleva che, a prescindere dal formato del festival, i partecipanti avessero una piattaforma virtuale, che ovviamente è tornata molto utile nel momento in cui il Sundance è diventato un evento online. Frilot sottlinea che quando un film viene trasmesso in streaming, spesso i registi hanno pochi strumenti per capire come è stato accolto dal pubblico, al di là di qualche recensione e magari alcuni dati. Quindi, per lei, le conversazioni che avvengono ai festival del cinema sono cruciali, anche se online. “Abbiamo costruito una stanza, una piattaforma, in grado di ospitare centinaia di persone alla volta per parlare di questi film – ha detto –. Senza il lockdown, non avremmo trovato questo elemento fondamentale per tenere il passo con il cinema online“.
Com’è fatto, quindi, il festival del cinema del futuro? Nel breve periodo, dovrà essere agile e contemplare qualche forma di coinvolgimento digitale e dal vivo. Per il momento, ogni festival sembra adattarsi al contesto in evoluzione in cui si trova: la variante omicron ha reso impossibile tenere il Sundance a Park City, in Utah, mentre gli organizzatori del Festival di Berlino stanno ancora progettando per febbraio un evento dal vivo, anche se più breve. Ma anche se un giorno il Covid-19 diventasse un ricordo del passato, un altro virus potrebbe prendere il suo posto. I festival del cinema hanno sempre dovuto fare i conti con problemi di accessibilità, che possono essere attenuati consentendo alle persone di partecipare da dimora. Quindi, forse, è possibile che i festival ibridi siano il futuro anche nello scenario migliore. La cultura cinematografica, d’altronde, esiste su piani diversi: è ora che i festival cinematografici facciano altrettanto.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Wired Us.
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2022-01-24 16:10:36