Si può democratizzare l’innovazione, per liberare creatività e aprire nuovi orizzonti. Facile: “Basta trovare il modo di mettere la tecnologia a quante più persone possibili, con strumenti semplici che possano permettere di inventare concept e idee pazzesche”. Non è un’fantasticheria, perché c’è chi come Massimo Banzi l’ha fatto vent’anni fa con la fondazione di Arduino, il tool open source per la prototipazione rapida che è nato all’Interaction Design Institute di Ivrea nel 2005. “Ho sempre avuto l’idea del fai-da-te della tecnologia e all’epoca ho voluto realizzare uno strumento che fosse accessibile, per dare davvero a tutti la possibilità di costruire gli strumenti digitali che ci circondano”, dice Banzi intervenuto al Festival dell’Ingegneria organizzato nel weekend dal Politecnico di Milano.
Oggi Arduino realizza tutte le sue schede in Italia, distribuite su un mercato che si divide tra l’Europa e gli Stati Uniti. Non è bricolage: “Avere tecnologie aperte – spiega – ha permesso alle persone di creare delle aziende. È interessante vedere come chi non ha alcun background di ingegneria elettronica e software impari a usare la tecnologia partendo da un’idea da realizzare”.
Tra le migliaia di storie, Banzi racconta quella di The Blue Box: un sensore capace di riconoscere il tumore al seno, partendo dall’analisi delle urine. “Una ragazza alle superiori si è chiesta se un cane è in grado di riconoscere un tumore al seno da un campione di urina in base agli odori, perché non può farlo Arduino? Ha sviluppato un sensore e funziona”. Nel 2020 la startup ha vinto il premio Dyson per l’innovazione e oggi permette lo screening di massa a basso costo. “Riconoscere un problema e volerlo risolvere era una capacità di innovazione un tempo legata solo ai grandi colossi della tecnologia; ma avere a disposizione schede elettroniche e software libero ha permesso a tutti di sperimentare”, sottolinea il co-inventore di Arduino che ricorda come “prototipare sia il modo giusto di fallire, perché solo con migliaia di prove arrivi a capire qual è la scelta giusta”.
“Liberarsi dai macinatori di dati”
Democratizzare l’innovazione – nota Stefano Zanero, docente di Cybersecurity del Politecnico di Milano – “consente proprio di svincolarsi dalla fruizione di tecnologia creata dai grandi giganti del web. La possibilità di creare oggetti che non sono dipendenti dai grandi colossi manicinatori di dati del web è importante, come lo è mantenere la nostra capacità di progettare innovazione, anche come nazione. Una capacità che non dobbiamo dare per scontata, ma che dipende dalla possibilità di avere accesso alla tecnologia di base”. Zanero sottolinea che molti laureati scelgono di lavorare nelle grandi multinazionali, “ma come sistema Paese – rileva – dobbiamo mantenere la capacità di essere attrattivi per queste persone e dare una alternativa per ottenere quella che viene chiamata sovranità digitale, che non c’entra niente con il sovranismo e la politica ma con il fatto di essere autonomi in campo tecnologico. Se perdiamo questa capacità non la riacquisteremo in futuro”.
Ma attenzione ai pericoli, mette in luce Zanero che non dismette mai gli abiti del prof di cybersecurity. “Se noi vogliamo democratizzare l’innovazione, dobbiamo anche fare in modo che questa tecnologia non renda facile alle persone il farsi del male. Questa tecnologia deve essere sicura by design, perché la sicurezza è complicata: se democratizzare l’innovazione significa rendere semplice realizzare la propria idea, dobbiamo fare in modo che l’hardware non solo sia il più possibile sicuro ma che richieda una bravura eccessiva per funzionare in maniera insicura. Oggi – conclude – non è così: bisogna essere molto bravi per rendere sicura parecchia tecnologia esistente”.