di Federico Gennari Santori
Non c’è pace tra Google e gli editori europei. Per questi ultimi quello con le grandi piattaforme digitali è sempre stato un rapporto di amore-odio: da una parte opportunità inedite per raggiungere pubblici sempre più grandi, dall’altra una perdita di profitti, e sopratutto di potere, senza precedenti.
Ora le regole del gioco a cui sono stati costretti ad adeguarsi per sopravvivere nel mercato pubblicitario stanno cambiando di nuovo. Tutta colpa dei cookie di terza parte. La rimozione annunciata da Google di questi piccoli pezzi di codice che consentono di tracciare la navigazione online degli utenti e di mostrargli annunci personalizzati sta scatenando il caos. Forse più del dovuto. Perché, paradossalmente, potrebbe trasformarsi, proprio per chi la osteggia di più, in un’opportunità.
Editori all’attacco
I primi a muoversi contro la decisione di Google sono stati gli editori tedeschi. Come riportato dal Financial Times, in centinaia si sono appellati alla commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager, denunciando un abuso di posizione dominante da parte dell’azienda statunitense e il rischio di ingenti danni economici per l’editoria online. Nel Regno Unito a intervenire è stato direttamente l’antitrust: la Competition and markets Authority si è attribuita la supervisione assoluta sulle modifiche relative al sistema di tracciamento degli utenti da parte di Google, che nel frattempo ha accettato di non eliminare i cookie di terze parti senza l’approvazione della autorità britanniche competenti.
Su questa scia, a fare pressioni sulla Commissione europea è intervenuto anche l’European Publishers Council, che include tra gli altri nomi del calibro di News Corp, Condé Nast (dimora editrice di questa testata), New York Times, Axel Springer e The Guardian. “Una raffica di tattiche illegali per precludere la concorrenza nella tecnologia pubblicitaria”: questa la sintesi di quasi 15 anni di storia di Google, che dall’acquisizione della piattaforma DoubleClick nel 2008, avrebbe stretto gli editori e l’intero mercato dell’advertising in una “morsa letale”. Così, dal quartier generale di Mountain View arrivano le prime aperture, compresa la definizione di un’alternativa ai compianti cookie. Ma come si è arrivati a questo punto?
Il tramonto dei cookie di terza parte
La parola d’ordine è una: privacy. Privacy Sandbox, appunto, è il programma lanciato da Alphabet (la holding di cui fa parte Google) per rendere la profilazione degli utenti meno invasiva e il trattamento dei dati più rispettoso su tutte le sue piattaforme. Così è partita una rincorsa ai concorrenti che su questo fronte si sono mossi molto prima. Recente è l’annuncio di una stretta sul sistema operativo Android, attivo sull’85% degli smartphone nel mondo: “nuove soluzioni pubblicitarie più private limiteranno la condivisione dei dati degli utenti con terze parti e funzioneranno senza identificatori trasversali rispetto alle app”, come già fatto dal concorrente iOS a partire dalla versione 14.5 del 2021. Ma la notizia più importante risale al lontano 2020 e doveva tramutarsi in realtà proprio all’inizio di quest’anno: è stato il panico generalizzato far slittare tutto al 2023.
Da quel momento Chrome, il browser ufficiale di Google e il più utilizzato al mondo, non accetterà più i cookie di terza parte, seguendo Safari (di proprietà di Apple), Mozilla Firefox, Microsoft Edge e DuckDuckGo. Per l’azienda californiana si tratta di una rivoluzione che scuoterà anche il suo mercato di riferimento, quello pubblicitario. Sì, perché i cookie sono le parti di codice che, all’interno di un sito web, segnalano al server che può inviare alcuni dati degli utenti al browser perché le memorizzi. Tracciare e stoccare informazioni come credenziali di accesso, prodotti aggiunti a un carrello e cronologia permette al browser di riconoscere di volta in volta un certo utente e di seguirlo nella navigazione: è quello che succede quanto non avete bisogno di effettuare il login per entrare in un’area riservata. I cookie, però, oltre che al sito ospitante, possono consentire questa memorizzazione di dati anche a cosiddette “terze parti” con le finalità più diverse. Come le piattaforme per il programmatic advertising, che se ne servono per catalogare gli interessi di navigazione degli utenti sulla base delle pagine che visualizzano. In questo modo riescono a profilarli e a selezionare automaticamente il banner più adatto da mostrargli. Un anno circa e la festa sarà finita.
Le alternative per il tracciamento
Dal 2023 le piattaforme pubblicitarie non avranno più informazioni a sufficienza per profilare come un tempo gli utenti e creare annunci davvero personalizzati. I centri media e le agenzie avranno fornitori meno efficienti a cui affidare gli investimenti pubblicitari dei loro clienti. Gli editori, che ospitano gli spazi occupati da quegli annunci, avranno meno possibilità di venderli e forse saranno costretti ad abbassare ulteriormente i prezzi. Con la sua decisione, insomma, Google rischia di scontentare un’intera filiera e, oltre ai rinvii, sta cercando delle alternative che tengano insieme la privacy degli utenti e le esigenze del mercato pubblicitario.
Source link
www.wired.it
2022-03-23 06:00:00