Vent’anni dopo, la missione in Afghanistan è finita. Ma ora c’è da capire cosa resterà davvero di questa guerra. Il ritiro dei contingenti Nato sarà completato entro luglio 2021 e lo scorso 8 giugno anche la bandiera italiana è stata ammainata. Se in questi anni i militari italiani hanno contribuito alla costruzione di strade, ospedali e scuole, restano non pochi interrogativi sul raggiungimento degli obiettivi della missione, quelli più volte ripetuti da tutte le forze politiche in campo: portare stabilità, garantire i diritti umani e liberare le donne dalla condizione di sottomissione in cui versavano sotto il regime talebano. Sì perché, almeno a parole, la ventennale guerra d’Afghanistan è stata combattuta anche per le donne.
«Sono intervenuti per cacciare i talebani e difendere i diritti delle donne. Dopo vent’anni vanno via con un accordo con i talebani e certamente le donne saranno abbandonate al loro destino». L’amaro bilancio lo traccia la principessa Soraya d’Afghanistan, nipote di re Amanullah e della regina Soraya, di cui orgogliosamente porta il nome, sovrani di Afghanistan dal 1919 al 1929, prima di dover lasciare il Paese e venire in esilio in Italia. «I miei nonni furono i primi a tentare di modernizzare il Paese e garantire i diritti delle donne», racconta, «emanando la prima Costituzione afghana, e di tutta l’Asia, puntando sull’istruzione e sull’associazionismo femminile».
La regina Soraya è stata considerata una delle prime femministe, tanto influente che il Time Magazine le dedicò la sua copertina nel 1927. Ma quel progresso fu bloccato allora, come nei decenni a seguire. Perché la storia si ripete sempre, spiega la principessa Soraya, e questo vale ancor di più per le donne afghane, che più volte hanno acquisito e poi visto svanire le loro libertà nel corso del tempo. Oggi la nipote della regina porta avanti quel processo, sostenendo l’artigianato femminile afgano e le cooperative come “Azezana”, dove lavorano oltre 400 donne per produrre foulard di seta o “Kandahar Treasure”, che produce i pregiati ricami di Kandahar, e promuovendoli in Italia e in Europa. Ci tiene però a sottolineare che quei pochi diritti conquistati finora dalle donne in Afghanistan, si devono agli sforzi delle associazioni femminili locali.
Proprio con operatrici afghane lavora Pangea, una delle associazioni italiane presenti sul territorio da più tempo. A Kabul dal 2003, porta avanti il programma “Jamila”, implementato grazie a più di trenta ragazze e donne afghane, che oggi lavorano in una decina di distretti per l’empowerment femminile. Nella capitale Pangea ha anche aperto la prima scuola per bambini e bambine sordi del Paese, che accoglie circa 600 ragazzi, con classi miste e una squadra di calcio femminile. Le ragazze che si diplomeranno quest’anno saranno le prime donne sorde afghane a poter accedere all’università.
«La chiave è l’economia, fare in modo che le donne possano essere indipendenti e autonome, per questo i nostri interventi sono di microcredito e cerchiamo di fare in modo che tutte abbiano un conto corrente in banca» spiega Luca Lo Presti, presidente e fondatore dell’associazione. Il processo di auto emancipazione per migliaia di donne che Pangea ha assistito, è passato anche da una serie di altri servizi, come l’educazione ai diritti umani, igienico sanitaria, sessuale, o il supporto ginecologico. Ma passa anche dall’istruzione maschile. «Le ragazze che sono state nostre beneficiarie, quando sono diventate mamme, non hanno forzato le figlie al matrimonio, questo perché abbiamo iniziato con le donne ma abbiamo lavorato poi anche con i mariti e i figli maschi, altrimenti si sarebbe creato un percorso di consapevolezza sbilanciato e ulteriore conflitto tra i generi», sottolinea Lo Presti.
«In questi anni abbiamo visto un cambiamento ma solo nelle città, e neanche in tutti i distretti: al centro di Kabul si vedono donne truccate o sedute al ristorante. Quello però non è lo specchio dell’Afghanistan: già nelle cittadine ai margini della capitale non c’è una donna senza velo», spiega ancora il presidente di Pangea. Che racconta poi come le donne afghane oggi siano più forti, ma anche che tra le operatrici a Kabul, ci sono diverse paure per il futuro. Il più comune è che con il ritiro degli occidentali scoppi una guerra civile e che il ritorno dei talebani possa cancellare i diritti acquisiti.
Perché quei diritti sulla carta ci sono. Dal 2004 l’Afghanistan ha una Costituzione avanzata anche sul fronte dei diritti: sancisce l’uguaglianza tra i sessi, la parità di trattamento davanti alla legge, stabilisce una quota minima di deputate. Nel 2008 è stata approvata una legge nazionale contro la violenza e nel 2018 è stato rinnovato il codice penale con un’intera sezione dedicata alla protezione delle donne. È vietato il matrimonio tra minori di 16 anni, proibito quello forzato o compensatorio e i delitti d’onore, in cui gli uomini uccidono mogli, donne o sorelle, devono essere puniti come qualsiasi altro omicidio.
Tutto cambia però se si sposta lo sguardo dalla forma alla sostanza.
Lo dicono i dati e i rapporti internazionali. Il Gender Inequality Index 2020 del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, posiziona l’Afghanistan al 157esimo posto su 162 Paesi, con solo il 13,2% delle donne che ha accesso a un’educazione secondaria e solo il 21,6% che lavora o cerca lavoro. Ultimo addirittura su 156 Stati secondo le stime del Global Gender Gap Report 2021.
E critico sull’effettiva applicazione della legge è anche il report di dicembre 2020 dell’Unama, la Missione Onu in Afghanistan, che ha segnalato come i delitti d’onore continuino, così come gli stupri, e che molte donne ricorrono all’auto-immolazione o al suicidio per fuggire alla violenza, ritenendo che il sistema giudiziario non offra loro reali garanzie.
Ma lo conferma anche la cronaca quotidiana. Il video diffuso lo scorso aprile di una donna condannata da un tribunale talebano a 40 frustate in una zona rurale alle porte di Herat, così come l’uccisione di almeno 55 giovani ragazze lo scorso 8 maggio all’uscita di una scuola nella capitale, sono solo l’ultima parte di un racconto di violenza estrema nei confronti delle donne che purtroppo resta la norma.
«L’Afghanistan è il Paese più maschilista del mondo». Ne è convinta la principessa Soraya, che spiega come il problema non siano solo i talebani, ma una cultura spesso ancora basata su codici tribali, fondati sul possesso e la difesa delle tre zeta: zan, zard e zamin, rispettivamente donna, oro e terra. C’è molta violenza, di cui le donne pagano il prezzo più alto, anche in termini di vite perse: tra il 2010 e il 2020 secondo l’Unama, sono state uccise 3.219 donne, 390 solo nel 2020.
Secondo Soraya l’obiettivo è alimentare questa violenza negando l’accesso alla cultura: «Per questo si continua a far esplodere le scuole, a non volere l’istruzione femminile e molti uomini continuano ad avere maggior interesse a vendere o far sposare le proprie figlie piuttosto che mandarle a scuola». Al tempo stesso però è convinta che un miglioramento ci sia stato: «Qualcosa è cambiato se oggi oltre 3 milioni di bambine possono andare a scuola, se le donne possono essere giornaliste, speaker radiofoniche o televisive, parlamentari. Non credo invece che i talebani siano cambiati», conclude.
Una delle cose che preoccupa maggiormente le donne afgane è proprio l’avanzata dei talebani, le cui dichiarazioni sulla volontà di continuare a garantire i diritti delle donne, ma “sulla base della sharia”, hanno suscitato più di qualche timore. Non è però l’unica preoccupazione, come spiega Emanuele Giordana, presidente dell’associazione “Afgana”, giornalista e scrittore che in Afganistan ha vissuto a lungo e che ha approfondito le dinamiche del Paese anche nel suo ultimo libro, “La grande illusione”.
«C’è la possibilità che i talebani decidano di dare una spallata perché non riconoscono il governo di Kabul» spiega, «ma preoccupa anche la debolezza del governo, per di più delegittimato con l’esclusione dai colloqui di Doha, condotti tra americani e talebani. Così come la presenza di gruppi regionali guidati da vecchi signori della guerra, che stanno organizzando la “seconda resistenza” per contrastare i talebani, ma in realtà per occupare il vuoto di potere. E infine le schegge di Daesh, ciò che resta dell’ex stato islamico».
Per la società civile e le donne afghane sono state spese troppe parole e pochi soldi.
«Dopo 20 anni l’Italia ha speso in cooperazione civile circa 320 milioni di euro e in operazioni militari 8 miliardi e mezzo: l’impegno nei confronti della società è stato pari a meno del 5% di quello militare. Cosa può restare di quel misero 5%?» si domanda Giordana.
Secondo l’esperto sarebbe stato meglio investire sull’economia reale del Paese, mentre i soldi sono stati usati prevalentemente per le armi e proprio la presenza di troppe armi oggi è uno dei problemi principali di un Paese in guerra da 40 anni.
Sul futuro dell’Afghanistan c’è incertezza, e la direttiva dell’ambasciata italiana, che consiglia anche ai civili di lasciare il Paese, non è certo un segnale positivo.
«Ciò che servirebbe è un progetto politico internazionale. Ma per ora non ci sono notizie su questo fronte», afferma ancora Giordana. Per questo con l’Atlante delle guerre sta organizzando per l’autunno una conferenza a Trento, con associazioni, esperti e diplomatici, per discutere su cosa si può e si vuole fare, se non altro a livello italiano: «Siamo un Paese piccolo ma che può giocare un ruolo importante», e conclude: «I movimenti femminili in Afghanistan oggi sono molto forti, si tratta di vedere se continueremo a sostenerli oppure no».