AGI – Un fuoco che non brucia, che apparentemente non esiste nemmeno, che però consuma le sottili trame di lino senza lasciare scampo. E la Sindone, uscita aparentemente indenne dall’incendio che rischiava di renderla un mucchio di ceneri nella notte dell’11 aprile del 1997, se ne andava lentamente, chiusa nella sua teca d’argento.
E’ il racconto, pacato ma questo non toglie nulla alla drammaticità della situazione, che fa al Sir Irene Tomedi, una delle grandi restauratrici di cui può andare fiera l’Italia, che nel giugno del 2002 fu chiamata insieme alla sua collega svizzera Mechthild Flury Lemberg a salvare quello che rischiava di essere ormai compromesso.
Un passo indietro, necessario: nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997 divampano le fiamme nella Cappella del Guarini – dove, in una teca d’argento, si conserva da secoli la Sacra Sindone. Non è il primo incendio che coinvolge il Sacro Lino, uno si era già verificato nella prima metà del Cinquecento, e le bruciature provocate dall’argento fuso sulla trama sono ancora lì indelebili.
Dell’incendio di un quarto di secolo fa tutti ricordano le fascinose immagini dei vigili del fuoco che a colpi di laglio sfondano il vetro antiproiettile che protegge la teca della Sindone: buono per le armi, non per il calore che si sta svilupando nella Cappella. Poi la salvezza, ed anche il più incallito dei negatori dell’autenticità della reliquia non può che provarne sollievo.
Tutto sembra risolto. Poi però ci si rende conto che qualcosa non va. “Il restauro era necessario perché, con il passare del tempo, il tessuto ha continuato a bruciare– spiega Tomedi al Sir – Si tratta di un processo chimico. L’ossigeno presente nell’aria ha continuato ad alimentare la combustione del tessuto. In alcuni punti abbiamo trovato che la bruciatura aveva oltrepassato anche le toppe che le clarisse avevano applicato nel 1534”.
Il restauro della Sindone durò poco più di un mese, dalla sera di giovedì 20 giugno alla sera di martedì 23 luglio 2002. “Sono stati giorni di intenso lavoro – ricorda Tomedi –. Tutto quello che è stato rimosso è stato catalogato e conservato in appositi vetrini. Il telo d’Olanda, ogni singola toppa, così come la fibra bruciata che è stata aspirata dal lino è stata riposta in contenitori sistematicamente etichettati”.
A documentare, ogni giorno, fin nei minimi particolari, il lavoro di Tomedi e Flury Lemberg era sr. M. Chiara Antonini, segretaria della Commissione per la conservazione della Sindone.“Non ci lasciava un attimo, era sempre lì, accanto a noi, con il suo quaderno, in cui appuntava ogni nostro singolo movimento”.
Una volta rimosse tutte le toppe e le parti bruciate, la Sindone venne fotografata ed esaminata grazie ad un videomicroscopio messo a disposizione da Tomedi. Nella terza fase del restauro la Sindone venne fissata su una nuova fodera. Il telo, un lino grezzo, venne donato da Flury Lemberg. L’aveva acquistato suo padre una cinquantina d’anni prima in Olanda (ancora una volta un ‘telo d’Olanda’, come quello usato dalle clarisse di Chambery nel restauro di mezzo millennio fa). Lavato più volte per disapprettarlo e per restituirgli morbidezza, il telo è stato lasciato del suo colore naturale, un avorio intenso.
“Tutte le cuciture – spiega Tomedi – sono state fatte con filo di seta a due capi. Una fibra naturale la seta, resistente, che non va a lesionare la fibra del lino della Sindone.Un lino che ha una lavorazione particolare, a spina di pesce, che ho ritrovato, qualche anno più tardi, durante il restauro di alcuni gambali tipo ghette, risalenti al 700 a.C.”.