Va detto che il documentario di Choi Jin-seong, disponibile dal 18 maggio su Netflix, non fa niente per nascondere gli spunti finzionali e la natura incredibilmente filmica degli eventi. Anzi. È pieno di ricostruzioni, scene filmate ex novo per somigliare a quelle ricostruite dalla polizia, dettagli e schermate organizzate, filmate e messe in scena con attori o effetti digitali. A queste accompagna le più tradizionali “teste parlanti” (il termine con il quale in gergo si intendono le testimonianze delle persone intervistate), che sono poliziotti, giornalisti ed esperti, finendo per creare una specie di strana realtà parallela grazie ad una fotografia molto cinematografica.
Questo approccio può facilmente dare fastidio, specialmente a noi che siamo abituati a pretendere dai documentari una certa fredda oggettività (in realtà non è mai così, né è davvero possibile, lo stesso è quello che ci aspettiamo), ma se si entra in questo strano regno tra vero e falso, o meglio tra ricostruito e vero, se si asseconda il viaggio di Choi Jin-seong, si può poi rimanere incredibilmente turbati dall’esplodere improvviso di immagini dei telegiornali che ci tirano fuori da quella che sembra una storia finta, inventata, e ci rigetta nella consapevolezza che una mente criminale di incredibile arroganza e stupefacente vanità, ha realmente comandato a distanza delle persone, e nemmeno poche, come un esercito di schiavi, grazie al ricatto online.
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di Gabriele Niola www.wired.it 2022-05-17 17:00:00 ,