D’Alema e il Pd: l’apologo dell’aeroplano e le variabili Schlein e Bonaccini

D’Alema e il Pd: l’apologo dell’aeroplano e le variabili Schlein e Bonaccini

D’Alema e il Pd: l’apologo dell’aeroplano e le variabili Schlein e Bonaccini



L’apologo dell’aeroplano e la cabina di pilotaggio

Si era ad Orvieto nell’ottobre del 2006 e le varie famiglie che di lì a poco si sarebbero unite nel Pd – quella “socialista” o meglio ex comunista dei Ds, quella cattolico-democratica della Margherita e quindi ex Dc-Ppi e quella liberal-democratica – si riunirono per esaminare i documenti programmatici e fondativi messi a punto dal compianto Pietro Scoppola, da Roberto Gualtieri (sì, proprio l’attuale sindaco di Roma) e da Salvatore Vassallo. D’Alema prese la parola e si lanciò nella metafora dell’aeroplano che divenne poi famosa. Cerchiamo di sintetizzare il suo ragionamento di allora: «Non dobbiamo avera paura di uno strumento nuovo, ossia il costituendo Pd, anche se la paura è comprensibile, come quella del viaggiatore che prende per la prima volta l’aereo. Ma l’aereo è un mezzo sicuro, stabile, ha due ali, destra e sinistra. E, cosa ancora più importante, ha una cabina di pilotaggio: è la tenuta di questa cabina che assicura la sicurezza del viaggio».

Dall’«amalgama mal riuscito» alla «cosa rossa»: le variabili Schlein e Bonaccini

Che D’Alema non fosse poi così convinto del progetto veltroniano del Pd è noto, tanto che solo sei mesi dopo la nascita del nuovo partito ebbe a bollarlo come frutto di «un amalgama mal riuscito». E anche il precedente esperimento prodiano dell’Ulivo era stato vissuto da D’Alema come l’alleanza tra partiti diversi più che come la fucina di un partito del tutto nuovo. Ma in ogni caso l’importante era ed è sedere nella cabina di comando, in prima o per interposta persona: dopo il competitor Veltroni, nel 2009 fu la volta del “suo” Bersani. Tutti, in ogni caso, ex Pci. La rottura ci fu solo quando a sedere nella cabina di comando arrivò il giovane Renzi, estraneo a quella tradizione e quella logica.

Ora potrebbe essere l’occasione di riprendersi il partito, la “ditta” come la chiamava Bersani ai tempi d’oro, senza neanche dover vincere un congresso. Chiaro che il progetto avrà successo se a vincere le primarie sarà Schlein, considerata più “eterodirigibile” rispetto a Stefano Bonaccini e soprattutto ideologicamente più vicina, abbraccio con il M5s di Conte compreso. Ma chissà che, in una logica di accordo di potere, il progetto non possa avere successo anche con Bonaccini, pur sempre – è il ragionamento dalemiano – un uomo di partito che proviene dalla tradizione Pci-Ds. Per ora il governatore dell’Emilia Romagna, favorito alle primarie, si tiene sul vago e a distanza («porte aperte a chi vuole rientrare»).

La bilaterale aperta del gioco del poker e la possibile via di fuga

In ogni caso D’Alema, che sempre Petruccioli descrive come un «abile giocatore di poker» sul grande tavolo della politica, ha sempre a disposizione una mossa di riserva. O meglio due opzioni dello stesso valore, come si spiega nei manuali: in caso di pari valore delle coppie conta la sequenza delle carte residue; in caso tutte le carte della sequenza siano le stesse, conta il seme della carta più alta della sequenza stessa. Se dovesse vincere Schlein bene, ancora meglio se a quel punto dovesse esserci l’uscita a destra dei riformisti. Se invece dovesse vincere Bonaccini e non si mostrasse accomodante, resta sempre la via di fuga, ossia il mancato rientro nel Pd per fare una “cosa rossa” assieme al M5s di Conte. Di cui D’Alema, va ricordato, negli ultimi anni è stato uno dei più ascoltati consiglieri assieme al plenipotenziario del Pd romano Goffredo Bettini. Chi vivrà vedrà.



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